Verso il voto – Gli Italiani alle urne per il referendum: tagliare 345 parlamentari per un risparmio di un caffè all’anno

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Michele De Leo – “Approvate il testo della legge costituzionale concernente “Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari”, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n.240 del 12 ottobre 2019?”. E’ questo il quesito al quale si troveranno a rispondere gli Italiani che si recheranno alle urne domenica e lunedì per una tornata che accomuna alla regionali ed alle comunali – laddove previste – pure il referendum sul taglio dei parlamentari.  Una questione che sta suscitando discussioni e polemiche tra i favorevoli ed i contrari alla riforma ma che, in alcune regioni come la Campania, è passata quasi in secondo piano per il grande interesse nei confronti del voto per il rinnovo del consiglio regionale. La riforma – se attuata, attraverso il voto favorevole al referendum da parte della maggioranza dei votanti – prevede la riduzione di 345 parlamentari, a partire dalla prossima legislatura: 115 senatori e 230 deputati in meno. Il Senato passerebbe da 315 a 200 seggi elettivi, la Camera da 630 a 400. Sono chiamati alle urne poco più di 46milioni e mezzo di italiani: la maggioranza degli elettori assicurerà l’entrata in vigore o meno della misura. Non è previsto, in questo caso, il raggiungimento del quorum perché il referendum sia ritenuto valido in quanto non si tratta di voto abrogativo. Nel referendum confermativo, detto anche costituzionale o sospensivo, si prescinde dal quorum, ossia si procede al conteggio dei voti validamente espressi indipendentemente se abbia partecipato o meno alla consultazione la maggioranza degli aventi diritto, a differenza pertanto da quanto avviene nel referendum abrogativo. Quello del 20 e 21 settembre è il quarto referendum costituzionale confermativo della storia della Repubblica italiana. Nei tre precedenti, due volte la legge approvata dal Parlamento senza la maggioranza dei due terzi è stata respinta dagli elettori, una sola è stata approvata ed è diventata legge costituzionale. Il primo voto confermativo è stato espresso dagli Italiani il 7 ottobre 2001: un referendum per confermare o no la riforma del Titolo V della Carta, approvata dalla maggioranza dell’Unione negli anni dei Governi Prodi, D’Alema e Amato: la consultazione passa con il 64,2% di voti favorevoli, anche se l’affluenza al voto si ferma poco oltre il 34%. Il secondo caso di referendum confermativo va in scena il 25 e 26 giugno 2006 e riguarda la riforma costituzionale varata dal governo Berlusconi: la cosiddetta devolution è bocciata con il 61% mentre i votanti raggiungono il 52%. Il 4 dicembre 2016 è la volta del terzo referendum costituzionale nella storia repubblicana: la maggioranza dei votanti respinge il disegno di legge costituzionale della riforma Renzi – Boschi, approvata in via definitiva dalla Camera nell’aprile 2016, che puntava tra l’altro a superare il bicameralismo perfetto con la rivisitazione del Senato. Il no raggiunge il 59,11% degli elettori con un quorum che supera il 69%. I sostenitori della riforma costituzionale motivano la decisione con la riduzione dei costi della politica, ma anche con la convinzione che un parlamento più snello si traduca in una maggiore efficienza del suo funzionamento. La riduzione del numero degli eletti, inoltre, renderebbe più trasparenti e più comprensibili dibattiti e decisioni, senza intaccarne la qualità, grazie a un numero minore di rappresentanti. Come spiega, però, l’osservatorio dei Conti pubblici italiani diretto da Carlo Cottarelli, “il risparmio netto generato dall’approvazione di questa riforma sarà molto più basso (285 milioni a legislatura o 57 milioni annui) e pari soltanto allo 0,007 per cento della spesa pubblica italiana”. In sostanza, si risparmierebbe un euro per ogni italiano: il costo di un caffè. Di contro, una delle ragioni principali dei sostenitori del no riguarda la rappresentatività dei territori: il taglio dei seggi aumenterebbe il numero di abitanti per ogni parlamentare, facendo crescere di conseguenza la distanza tra la popolazione e i suoi rappresentanti. Se attualmente in Italia ciascun deputato rappresenta 96.006 cittadini, dopo la riforma ne dovrebbe rappresentare 151.210. E per ciascun senatore si passerebbe da un bacino di 188.424 cittadini a 302.420. I sostenitori del no ravvisano, altresì, un pericolo per la democrazia anche riguardo alla rappresentanza territoriale, dal momento che sarebbe ridotto il numero di senatori eleggibili nei territori regionali.