In origine (del termine) era ultrā, dal latino: oltre, al di là, dall’altra parte. E quale parte, le ultras della Curva Sud di Avellino, lo sanno bene: quella “sbagliata”.
Le Girls, al principio le Cruels – sulla scia dello storico gruppo ultras nato nel 1988 e in riferimento alla più crudele delle streghe Disney, Crudelia De Mon, icona pop e trasposizione italiana del personaggio Cruella De Vil (gioco di parole tra cruel, crudele, e devil, diavolo), dal 2000 occupano uno spazio ben preciso sulle gradinate dello Stadio Partenio-Lombardi. Uno spazio di sole donne, nel maggior parte dei casi coinvolte dalla passione di padri, fratelli, compagni, ritagliato tra gruppi composti esclusivamente da uomini.
Le Cruels nascono in una piccola città di provincia, com’è Avellino, esattamente cinquant’anni dopo le prime avvisaglie del tifo organizzato in Italia, quando – per le principali squadre di calcio – iniziano a fondarsi i club dei sostenitori. Quello del 2000, è un tifo già differente dallo spontaneo degli inizi: ha attraversato gli anni ’70, con la nascita degli originari nuclei ultras, che si posizionano al centro delle curve negli stadi, esponendo striscioni, bandiere e colori della propria squadra, suonando trombe e tamburi (in uso nelle tifoserie brasiliane), realizzando “sciarpate”, importate dagli inglesi, e coreografie costellate di fumogeni, razzi, bengala; quello degli anni ’80, con l’espansione del movimento ultras e l’inevitabile nascita di una rete di amicizie e rivalità tra tifoserie; quello degli anni ’90, del cosiddetto “calcio moderno” avversato dai tifosi, e del sopravvento delle pay-tv, con l’avvio di un progressivo frazionamento delle partite e di sempre maggiori limitazioni nell’accesso agli stadi e alle trasferte, denunciate nelle “fanzine”, giornalini distribuiti dai gruppi organizzati durante le partite. Perché, se nell’immaginario comune l’ultrà è solo ed esclusivamente un violento, nella realtà – pur con le proprie norme e codici specifici – le tifoserie sono luogo di aggregazione, spettacolo e passione popolare. E su di esse vengono sperimentate forme di controllo estese, a seguire, ad altri ambiti della società. Tuttavia, anche l’entità delle tifoserie muta, e molte curve (quelle delle “grandi” squadre) vengono gestite in maniera sempre più manageriale e sempre meno fedele alla “mentalità ultras”.
Mentalità che le Cruels fanno assolutisticamente propria, assorbendo come spugne tutte le caratteristiche del movimento. Presenziano, dal 2000 al 2009, alla lunga fase altalenante del calcio avellinese, che alterna retrocessioni e promozioni, tra la Serie C1 e la Serie B. Ma, con il fallimento della società (che il 10 luglio 2009 abbandona il calcio professionistico con la somma debitoria di circa 4 milioni e 200mila euro), finisce anche l’esperienza delle prime ultras irpine. Così, tre anni dopo, nel 2012, dallo stesso nucleo delle Cruels, nascono le Girls. E, da quel momento, le Girls non mollano: per loro, essere ultras è uno stile di vita. Le Girls non mancano a una trasferta, per fedeltà alla curva e alla “maglia”, vivono la curva per passione e non per moda, sanno che far parte del gruppo è un impegno vero, costante, quotidiano. Le Girls sono ragazze, adolescenti, giovanissime, ma anche adulte, con figli al seguito. Si autofinanziano, presenziano ai Memorial e organizzano – insieme al resto della curva – attività di beneficenza negli ospedali (come una recente raccolta di giocattoli per il “Moscati” di Avellino) e a sostegno delle famiglie bisognose.
Con una sola differenza: il colore. Le Girls non si adeguano al nero o alle sole tinte biancoverdi. Scelgono il rosa, colore da sempre associato alle donne, al “femminile”, perché risalti e capovolga se stesso nell’immaginario collettivo a cui è legato.
Non sono un club femminile, sono ultras: non sostengono i giocatori, ma “la maglia”, non scattano foto o video durante le partite, ma tifano e cantano ininterrottamente per 90 minuti, calcolano il rischio in trasferta e, se il servizio d’ordine dello Stadio chiede: “ma perché le donne non restano a casa?”, rivendicano a gran voce la propria presenza. Sanno che il problema di una è un problema di tutte, e il fondo cassa comune serve non solo a finanziare materiali, ma soprattutto per permettere di partecipare alle partite anche a chi non ne ha la possibilità economica.
Donne, ultras e stadi, sì, ma a che punto siamo?
Che un luogo storicamente e culturalmente deputato a una passione e alla “militanza” degli uomini o, meglio, considerato spazio maschile, si popoli di donne, in ogni ambito, è sempre una buona notizia. Che possa poi, la loro presenza, stravolgerne le dinamiche, è un altro paio di maniche.
Un esempio lampante sono le donne arbitre, come Maria Sole Ferrieri Caputi, prima, nella storia della serie A, a guidare una squadra arbitrale composta da tre donne, e a cui sono piovuti addosso insulti di ogni sorta (e perfino una ricetta per la preparazione degli gnocchi), tutti in relazione alla sua presunta inadeguatezza al ruolo e, ça va sans dire, al suo aspetto. Se gli arbitri vengono tacciati di essere corrotti, le arbitre sono semplicemente incapaci di giudicare qualcosa di intrinsecamente “maschile”. Un’idea che si applica, spesso e volentieri, anche alle giornaliste sportive, impegnate – per la maggior parte dei casi – nella presentazione di programmi, in interviste e cronache, e rarissimamente nell’opinionismo e nell’approfondimento delle questioni in una prospettiva di genere.
L’altro lato della medaglia, però, mostra – dati alla mano – che le ragazze iscritte all’AIA sono più numerose dei ragazzi e lo stesso fenomeno del calcio femminile è in costante crescita: dopo decenni di rivendicazioni, dal 2022, le calciatrici di Serie A hanno ottenuto lo status di “professionista”, seppur con ampie disparità di retribuzione rispetto ai colleghi uomini. Addirittura i tifosi paiono maggiormente interessati alle partite femminili.
Chiaro è, come sta avvenendo in molti altri campi, che la crescita della presenza femminile in un ambiti tradizionalmente maschili, con il conseguente aumento della loro visibilità e anche autorevolezza, comporta reazioni non sempre concilianti, anzi, più spesso conflittuali.
D’altro canto, lo stadio è una sorta di microcosmo nel macrocosmo della società contemporanea, quello che – forse – ne recepisce in maniera più netta le contraddizioni. Dall’infiltrazione mafiosa (ricatti nei confronti delle società, bagarinaggio, traffico di armi e sostanze stupefacenti) all’attivismo sociale in raccolte alimentari ed eventi di beneficenza; dal vento di estrema destra che soffia nelle curve – per restare in continente – di tutta Europa, con un linguaggio e una simbologia di tradizione nazifascista, all’antifascismo tedesco (come nel caso degli affiliati al Borussia Dortmund) e scozzese (con l’antimperialismo del Green Brigade del Celtic F.C., da anni schierato a sostegno della causa palestinese), ai messaggi di inclusione e uguaglianza, alla solidarietà nei confronti delle vittime di disastri naturali. I tifosi dell’FC St. Pauli, in speranzosa conclusione, sono particolarmente noti anche per la loro opposizione al sessismo e all’omofobia, e l’attenzione ai temi dell’inclusività e dei diritti umani.
Attenzione che, nel proprio piccolo e in maniera del tutto embrionale, anche la curva Sud dell’Avellino ha riservato ai femminicidi susseguitesi in Italia nelle ultime settimane, con uno striscione esposto durante il match contro il Monopoli dello scorso 13 aprile.