di Maria Giovanna La Porta – Che esistesse un’affinità elettiva tra il teatro e la follia ce lo hanno insegnato i più grandi attori e registi, psichiatri ed artisti. Al connubio perfetto, tuttavia, c’è chi ha aggiunto un’altra condizione: essere degli homeless, ossia dei senzatetto.
E’ quanto ha realizzato l’arianese Mario Merone, classe 1979, che da cinque anni vive a New York e – da poco più di un anno – ha messo su nella Grande Mela un progetto di teatroterapia per senzatetto con malattie psichiatriche. “Lavoro nel Bronx, in un centro di accoglienza che gli americani chiamano shelter, una sorta di Caritas, dove mi occupo di senzatetto con disturbi mentali, schizofrenici, bipolari, ex assassini, persone con problemi di droga, depressioni. Insomma, persone che hanno perso tutto, tranne la voglia di vivere. Si tratta di circa duecento uomini dai 18 anni agli over 60 per la maggior parte afroamericani che durante il giorno sono liberi di entrare e uscire dal centro, ma devono tornare entro le 22.30 altrimenti perdono il posto letto” ci racconta Mario che in Italia non tornava da un po’ e che vive a Manhattan con la sua fidanzata di Washington.
Un americano a metà che è riuscito a trovare la sua dimensione in quel melting pot di culture, di rumori, di persone e che adesso vive la sua identità collettiva.
“Inizialmente dovevo stare a New York per sei mesi, il tempo di imparare la lingua – spiega – perché avevo avuto l’idea di creare un ponte tra Italia e Usa per la compagnia per cui lavoravo a Roma. Poi ho capito che mi piaceva troppo stare lì. Presentarsi come un attore a New York è una cosa normale, non vieni screditato (come a volte accade in Italia). La cosa più bella è stata sentirsi accettato da quella città in cui tutti hanno bisogno di sentirsi più umani e così ti fanno esprimere, vogliono vedere che cosa sai fare, quale miglioria puoi apportare”.
La sua idea di teatro è collegata a quella di Eduardo De Filippo che “amava le persone, le osservava e le raccontava attraverso i suoi personaggi” dice Mario che parla di Eduardo come del suo più grande maestro. Quella comicità dietro la quale si nasconde la miseria umana, le ilarotragedie che l’uomo vive quotidianamente mescolate al teatro dell’assurdo di Beckett.
“La follia è una condizione umana: in noi la follia esiste nella stessa misura in cui esiste la ragione” diceva lo psichiatra Franco Basaglia. E così teatro e follia diventano una sola cosa, estensione e metafora dell’indecifrabile, dell’indicibile, dell’ambiguità della vita, dei sentimenti, delle emozioni. “Dalle 8 del mattino alle 16 io sono lì con loro e per loro. Non mi vedono come un medico perché non lo sono e perché non li faccio sentire malati. Con me la loro unica medicina è la recitazione. Sono liberi di entrare nella mia activity room, lo studio da me denominato Laz Vegas perché quello che succede lì dentro resta lì dentro. E loro si fidano, si aprono, raccontano le loro storie”.
Storie da film, copioni da blockbuster americani. Storie di violenze, stupri, malattie, morte, da parte di quegli ultimi che, in alcuni casi – in un’altra vita – erano i primi. Dall’ex giocatore di football americano che si è giocato tutto, anche la propria fortuna, alla promessa dell’NBA impazzito con la Borsa, dietro investimenti sbagliati. Da chi ha scontato 25 anni di carcere per aver ucciso un uomo a chi uomo non voleva più esserlo e aveva deciso di cambiare vita, ma non ce l’ha fatta. Da chi è appartenuto alle gang afroamericane a chi è scappato da Santo Domingo e impara l’italiano giocando a ping pong con Mario.
Otto ore insieme durante le quali si improvvisano scenette, si recita Shakespeare, si organizzano talent show in cui ognuno esterna la sua dote. C’è chi canta e chi balla, chi legge il giornale e ritaglia le lettere creando opere artistiche, c’è il comico, il poeta, il pittore. “Sono così naturali e liberi che a volte fanno sentire te diverso, folle”. In quella stanza Mario assiste e genera una continua messinscena in bilico tra sofferenza e gioia, tra caos e ordine, tra ironia e dolore, tra apertura e chiusura al dialogo con la malattia mentale.
E alla domanda se mai avesse avuto paura di essere aggredito, risponde di no. “Mi sento più protetto lì dentro con loro che fuori. Ormai siamo una famiglia: loro (quasi tutti di colore) mi dicono che io non sono un bianco, sono un loro fratello. Quando arriva uno nuovo, i ‘vecchi’ spiegano le regole, come devono comportarsi e chi sono io. Con me escono, andiamo a visitare musei, li porto in metro, una passeggiata sulla Fifth Avenue”.
Una continua ispirazione per Mario che sta preparando uno spettacolo teatrale su di loro e che vorrebbe i suoi “amici” come attori. Oggi Mario oltre a lavorare a questo suo progetto, fa parte della compagnia teatrale Kit (Kairos Italy Theater) e porta in giro uno spettacolo di magia per bambini “The Amazing Max” con un’altra compagnia teatrale newyorchese.