“Spese militari freno allo sviluppo”, no alla guerra nell’ultimo libro dell’irpino Caruso

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Raul Caruso

Fino a che punto è vero che la spesa militare può trainare la crescita di un paese? Quale ambigua relazione intercorre tra ricerca, sviluppo tecnologico e corsa agli armamenti? Sono queste alcuni dei punti affrontati nell’ultimo libro dell’irpino Raul Caruso, ricercatore in Politica economica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore.

“Chiamata alla armi. I veri costi della spesa militare in Italia” (Egea Editore) è un libro per appassionati, ma anche per chi voglia approfondire argomenti che, pur essendo di estrema importanza, spesso rimangono a margine del dibattito contemporaneo.

Pur generando ritorni positivi per un numero di persone, “la guerra – sostiene Caruso che dirige la rivista Peace Economics, Peace Science and Public Policy ed è editorialista del quotidiano Avvenire – non contribuisce allo sviluppo di una società e non è uno stimolo alla crescita dell’economia nel suo complesso”. Al contrario, produce conseguenze negative sui fattori effettivi di sviluppo, in particolare su quelli di lungo periodo: scolarizzazione ridotta, che a sua volta genera una minore accumulazione di capitale umano; minori performance in ambito lavorativo; diminuzione della produttività; aumento della corruzione; aumento della diseguaglianza dei redditi e della sostenibilità fiscale; e aumento dell’insicurezza.

I costi legati al riarmo dunque non sono cosa da poco: creano un danno in termini di crescita e sviluppo e di deterioramento della qualità della democrazia e sono costi “irrecuperabili”, sostenuti senza condurre ad alcun ritorno economico positivo nel futuro.

Con queste premesse Caruso va a fondo della questione: a quanto ammonta la spesa militare nel nostro Paese? Qual è la sua composizione e quali sono le scelte che la guidano? Il libro prova a fornire una risposta a questi interrogativi, anche attraverso l’analisi del caso Leonardo (ex Finmeccanica), leader nel comparto militare ad alta tecnologia.

Allargando poi lo sguardo all’Europa, dove spesso la proprietà delle aziende del settore è pubblica, due sono i temi su cui si concentra la riflessione: da un lato, il rapporto tra gli obiettivi di business delle imprese e il perimetro degli accordi internazionali sottoscritti dagli Stati-azionisti; dall’altro, la necessità di una difesa comune europea.

In questo quadro, l’autore avanza due proposte concrete. La prima per la creazione di un’agenzia indipendente per il controllo del commercio internazionale di armamenti. La seconda per l’introduzione di un nuovo parametro su cui basare le scelte di politica economica, e cioè il rapporto tra spese per l’educazione e spese militari: un indicatore di questo tipo metterebbe a diretto confronto un investimento per lo sviluppo, rivolto dunque al futuro, con una spesa corrente, che costituisce invece un freno alla crescita, e nella sua semplicità coniugherebbe le esigenze strategiche di oggi con un’attenzione più responsabile al domani.