Pratola-Lo sciamano che fu ‘apparatore’, Leone pittore e uomo libero

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Dal collega Gerardo Picardo, dell’AdnKronos, riceviamo e pubblichiamo un ritratto di Nicola Leone, in occasione della Mostra retrospettiva che sarà inaugurata dal 21 marzo a Pratola Serra. : “Gente strana, i Leone. Annusano l’aria come fanno i segugi. Giocano con i colori e il legno, hanno nelle vene una libertà che è sangue di artisti puri. Risulta vano ogni tentativo di imporre mordacchie e giri di corda a uomini così, che conoscono il segreto della pietra e sanno contare le anime dei morti con la ‘ventolina’. La loro prima scuola è stata la strada, la capacità di strappare senso e verità pur nella povertà che obbligava a buchi di cinghia e spingeva a inventarsi i giorni. Sempre in movimento, perché nati vicino al fiume. Come le civette che amano, i Leone sanno vedere nella notte. Nicola Leone, lo sciamano capostipite della dinastia, faceva le ‘cotte di pane’ per i poveri, i suoi figli aprono le loro case e laboratori di pittura e scultura agli amici, inscenando continui cenacoli di pensiero e di libertà. Verità e humanitas, occasione sempre propizia per spostare i propri Di Nicola Leone, personaggio che avrebbe fatto la gioia di ogni ‘paesologo’ mi parlava sempre suo figlio, Giuseppe Antonello. Raccontava di quel padre che non si era mai piegato, neanche davanti al bastone del podestà. Di una moglie, “zia” Concetta, bella e tenace, che a piedi andava a prendere per lui le puntine di ferro nei paesi vicini. A quel tempo con Peppino – che è stato amico di mio padre prima che mio – ci divideva un muro. Abitavamo entrambi, lui è ancora lì, sulla collina di Pizzofalcone, tra i segreti di Napoli, la città magica, con i suoi vicoli che ti camminano sempre nel cuore. Nessuno dei due dormiva mai: io di notte studiavo per un dottorato, lui inchiodava legni, e dipingeva o scriveva poesie. Di giorno io raccoglievo carte e libri di filosofia, lui raccattava per strada polistirolo e cartone per le sue opere, nate con il vento irpino nell’anima. A volte pranzavamo insieme, alla ‘Tavolella’, lui disegnava sui tovaglioli per il padrone del locale, annotava pensieri e schizzi con il carboncino. Il discorso poi finiva sempre su quel padre artista che se avesse potuto studiare, avrebbe messo in fila pure Ligabue. L’occhio di Peppino a un certo punto si riempiva e diventava lucido. “Mio padre mi ha insegnato la libertà e l’onestà – mi raccontava – e ci diceva di dipingere sempre, con qualsiasi tempo. Contro tutto. Pure per una fresella…”. Quel ricordo vivo e forte del padre, artista senza briglie, c’era anche in Sinibaldi, l’artista che un giorno lasciò il cuore sulla strada di catrame, e c’è in Ermonde, il demiurgo della ceramica modellata con tre cotture. C’è anche in Bruno Leone, l’ultimo Pulcinella, e nella generazione dei nipoti di quell’artista che impastava i suoi colori con uova e farina, dormiva sul grano e come ricompensa spesso portava a casa due lire, e un fiasco di vino dalla taverna di zia Chiara.
Sapeva che ciò che conta è pensare la propria vita, e vivere il proprio pensiero. Conosceva il suono della Natura. Il primato del sentire, di quella ‘paticità’ tanto cara ad Aldo Masullo, che si faceva consiglio, rimprovero, a volte sentenza. Parola e sputo, sangue e anima. Gonfie di colore e pensiero, le tele di Nicola Leone. Raccontano storie nel vento di Serra, con figli portati sul sentiero di pietra a carpire il perché di grano e terra. Pittura di strada, che rimanda sempre ad altro, scopre fili della memoria che legano desideri e vita vissuta. Olio e tempera: mettono in scena preti che danno il gelato al cane, o donne del popolo che conoscono il dolore, portano i loro morti al collo, vestite di nero, ma hanno sempre sedie di paglia sull’uscio di casa. Ha voce quella pittura, e prende forma sotto mani grandi, abituate a fare guerra all’apparenza.

Inquieto cercatore di verità, Nicola Leone sapeva scheggiare il legno per liberare formule di costruzione. Le sue opere abitano il verde dell’Irpinia e un mondo popolato di attese, santi e campanili, ianare e ladri. Rubano l’occhio con la forza dei segni, e raccontano sempre umanità. Un viaggio tra le rovine, per cogliere ciò che resta. Perché al Sud il fuoco di brace che alimenta la speranza è più importante delle ferite che bruciano la carne aperta. Allora il pensiero si fa parola, la tradizione orale supera il tempo, come i briganti guadavano l’Ofanto. La voce di libertà raggiunge Un cantiere aperto l’arte di Nicola Leone, che racchiude lotte e destini tenuti controvento. I temi sono quelli del lavoro ma anche dell’impegno politico e della giustizia sociale. Partendo da un punto sulla povera tela, si ritorna a scorgere incantesimi trattenendo un sorriso o una lacrima tra le scale di pietra e gli alberi che fanno ombra al dolore. Un po’ per preghiera e un po’ per magia, Leone continua a lanciare i suoi dadi quando le luci del Calvario si accendono di altre storie portate a sera. Una pittura che invita a cogliere una provocazione. Nel senso letterale questo termine è inteso come pro-vocare, chiamare fuori, chiedere che si faccia presente. Punta a trattenere rughe e percorsi tra gli arcobaleni che tagliano i giorni all’ombra della quercia di Pratola. Narrazione di radici e di bellezza, di tracce da scoprire nella terra. Storia dura, dove il legno e il ferro tracciano passaggi e dicono impegni nella storia. Responsabilità della parola, sempre. E amore per i figli. Lo vediamo parlare con le ombre, solo nella sua officina: c’è da dare un quadro al medico che ha visitato la più piccola della nidiata. E questo mobile intagliato di notte servirà per comprare un quaderno al bimbo che alle 5 di mattina, camminando a piedi, prenderà il treno per Avellino, per Nicola Leone ci ha lasciato con le sue opere una strada di pensiero e di mille incroci. I suoi ricordi sono un camino di pietra che sa parlarci del tempo che abbiamo perso, ma anche un invito ad andare oltre il frammento. Perché non si vive di nostalgia e non si può chiodare un tempo che ha un’unica legge: il futuro. Nei suoi dipinti, dove l’arte ruba alla necessità la voglia di raccontare, abita la forza di scelte consumate all’addiaccio, con l’anima di ferro che si alza da un cavalletto e sperimenta tensioni e il pathos del pensiero. Il segreto di questo artista della materia è conciliare mente e mano, perché la mano è organo degli organi secondo la lezione di Giordano Bruno. E’ pensare un’arte povera ma sempre in movimento, kinesis infinita che si rincorre nel gioco delle cromofanie e delle risonanze. Perciò le sue opere viaggiano tra silenzi e parole, con le mani sempre aperte al vento che porta le voci, e tanti pesi sul cuore. Topoi dell’identità e di una memoria che sa guardare al domani. Pensiero, non grido. Un lungo racconto fatto di saperi e riti, dove l’arte diventa collegamento diretto tra memoria e storia, perché la leggenda è continuare.

Nessuno di noi saprà cosa abitava davvero il cuore di artista che ha lottato ogni giorno per dare carne ai sogni che coltivava nel petto. Questa storia di verità appartiene solo alla sua ricerca, e ha il colore del viola e dell’azzurro, del verde degli alberi e del rosso delle foglie irpine. Tracce di ricerca che danno luogo a intensità, e chiedono risposte vere a domande vere, tra le strade della differenza. Un alchimista, Nicola Leone, che disegnava alla fioca luce di lampade a petrolio, ma sapeva guardare lontano. Un artigiano della materia che da giovane ha seguito la sua tentazione, l’argilla. Poi si è fatto sedurre dalla tavolozza e ha imparato il segreto dei colori. Un’arte che punta a un repentino da cogliere pur nell’infinita topologia di ricerche ineguali e di storie mai chiuse. E insegna a cercare, a costruire nella pietra di senso le nostre dimore, fossero anche quelle di una notte. Parola-segno che sa farsi logos e fa strada ad altre avventure.
Un invito per altre lampade e veglie. Quest’arte ha grandi radici ma soprattutto ama il sole, chiama le ombre della notte per raccontare amore e morte, il volto dell’altro e la bellezza del silenzio. Un “sapere dell’anima”, per dirla con Maria Zambrano. Anche le parole di Nicola Leone restano. Sono un’isola nella memoria del vento. Restano i suoi proverbi, la sua voce particolare, che rimbalza nei racconti dei nostri vecchi. Si è innamorati della storia perché la storia è senza banalità. Abbiamo bisogno di maestri veri, e pensiero appassionato. Le opere di questo maestro autodidatta ci chiamano perciò a un’istanza sul Ricordare oggi Nicola Leone, ‘l’apparatore’ che continua a farci pensare con i volti e i colori della nostra gente, ha il significato di riprendere la vecchia cassetta degli attrezzi di un artista che sgrezza la pietra in una bottega di libertà che potrebbe raccontare ancora molto, soprattutto ai giovani. Un irregolare di cui ascoltare ancora la lezione, restando uomini nel suo vento di lotta contro un destino di ingiustizie. Forse anche noi, insieme a quell’uomo vestito con il velluto, siamo in viaggio verso un incontro ancora da cercare. Una piccola verità da amare, accannando altra legna per il domani. Un verso di Antonello Leone, recita: “Ci vedremo questo inverno, quando la mia ultima tela sarà nel tuo vento…”.

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