Matrimoni in crisi, separazioni e divorzi in aumento in Irpinia, ne parliamo con l’avv. Giovanni Bove avvocato civile ed ecclesiastico.
Il report pubblicato dall’ISTAT nel giugno 2014 attirò l’attenzione dei media perché mostrava come il numero di separazioni e divorzi nel 2012 avesse per la prima volta registrato un calo (rispettivamente -0,6% e -4,6%) rispetto alla continua crescita dal 1995 in poi.
Secondo la fotografia dell’istituto di statistica per ogni 1000 matrimoni si registrano 311 separazioni e 174 divorzi con le unioni recenti che durano di meno (raddoppiate dal 1985 le unioni finite dopo il canonico settimo anno) e numeri più che raddoppiati al Sud dove, ad esempio, in Campania si è passati da 70,1 a 270,5 separazioni per 1000 matrimoni.
Colpa della crisi, chiosava la Coldiretti, perché vivere da soli costa il 66% in più e allora “Brodo lungo… e seguitate!”, come diceva il frate cuoco Gaudenzio nel racconto “Il teschio di Amalziabene” della scrittrice ottocentesca Emma Perodi per indicare la necessità di cavarsela con le risorse di cui si dispone.
Ristrettezze economiche o meno e aldilà delle statistiche, gli effetti della crisi dell’istituto matrimoniale sono sotto gli occhi di tutti; ne parliamo con l’avvocato Giovanni Bove, 39 anni, sposato e padre di due bambini, avvocato civile ed ecclesiastico, patrocinante dinanzi i tribunali civili ed ecclesiastici, socio della Ascait (Associazione Canonistica Italiana).
Ormai anche nella nostra realtà i dati sulla fine prematura dei matrimoni sembrano allinearsi con le medie nazionali…
“Questo è vero e si colloca non tanto, a mio avviso, in un discorso di medie nazionali, ma in una tendenza culturale e sociologica che, nella generale relativizzazione dei rapporti umani, sociali e culturali, porta come conseguenza il fatto che anche l’istituto matrimoniale sia considerato come un qualcosa da “rompere” alla prima occasione. Intendiamoci bene, a mio avviso, da un lato occorre distinguere una dimensione di oggettiva impossibilità alla convivenza, in un ottica direi “patologica” del contratto matrimoniale, rispetto alla quale è innegabile il diritto a ricorrere alla separazione, dall’altro occorre far riferimento a tutti quei casi, e sono tanti nella mia esperienza, in cui in nome del diritto alla felicità del singolo si mette in crisi l’istituto matrimoniale. In altre parole oggi, in termini generali, non è in crisi la capacità del singolo di fare le cose, quanto la capacità di farle “insieme” e questo si ripercuote anche nella gestione della vita familiare, a volte determinando la fine delle unioni per problemi di poco conto”.
Quali sono in Irpinia i motivi più frequenti di separazione tra i coniugi?
“Anche in Irpinia, come in Italia, i costumi stanno cambiando e ciò si riflette sulle cause della fine del matrimonio anche per ciò che riguarda le posizioni della giurisprudenza. Detto questo, oggi si tiene presente il diritto alla felicità ed alla realizzazione della dignità del singolo nel contesto della coppia e rispetto a questo principio si coniugano i singoli motivi della separazione, che possono essere diversi. Tra questi si possono annoverare l’abbandono ingiustificato del tetto coniugale, il venir meno agli obblighi derivanti dal matrimonio, il non prendersi cura del coniuge e/o dei figli, la mancata collaborazione nella realizzazione degli indirizzi della vita familiare, l’intollerabilità della convivenza coniugale, la violenza fisica e psicologica”.
In quali casi è possibile adire le corti ecclesiastiche? In quanti fanno ricorso a questo tipo di separazione?
“Il motivo per cui un coniuge sceglie di rivolgersi ad un tribunale ecclesiastico, che giudica esclusivamente il piano della validità del sacramento matrimonio, risiede nell’intima consapevolezza di aver posto un consenso invalido dinanzi a Dio e alla Chiesa. I capi di nullità che viziano il consenso matrimoniale canonico sono l’esclusione di una delle finalità e/o proprietà essenziali del matrimonio (che è la simulazione del consenso), le incapacità psichiche al consenso matrimoniale, l’errore sulle qualità del coniuge, il dolo, la condizione apposta al consenso, la “vis vel metus” ed altri. Con l’occasione sgombriamo anche il campo da un equivoco; le cause di nullità matrimoniale non sono quelle in cui, secondo una accezione comune, il matrimonio non è stato consumato, ma sono altro; i lettori capiranno, dunque, che possono esserci ipotesi di nullità anche in presenza di figli. Oggi il numero delle cause di nullità matrimoniale è in aumento anche a causa di una maggiore facilità di accesso alle informazioni e per un approccio più umano alla gestione della crisi coniugale”.
Quali sono i vantaggi e gli svantaggi delle due procedure?
“La differenza tra la separazione (e poi divorzio civile) e la causa ecclesiastica di nullità è evidente sul piano degli effetti, poiché mentre la separazione determina uno scioglimento del contratto matrimoniale con salvezza degli effetti prodotti dal matrimonio fino a quella data, la causa di nullità matrimoniale determina l’annullamento ab origine del vincolo e travolge tutti gli effetti prodotti dal matrimonio. Ovviamente questo effetto si ottiene con il successivo riconoscimento da parte dello Stato Italiano della sentenza di nullità ecclesiastico mediante la procedura di delibazione. La causa di nullità matrimoniale, a mio avviso ed ove ricorrano i casi, è sempre da preferire al giudizio di separazione e divorzio per la brevità dei tempi e la delicatezza con cui ci si approccia alla gestione del caso”.
Come si relaziona ai clienti in crisi matrimoniale, le è capitato che qualche coppia si sia riconciliata nel suo studio?
“Personalmente preferisco un approccio che prediliga molto l’aspetto umano; i clienti sono innanzitutto persone che affrontano un momento doloroso della propria esistenza e, dunque, creare un clima che consenta di affrontare serenamente questa fase della vita favorisce il raggiungimento dell’obiettivo. In questo le cause di nullità aiutano molto poiché in esse le istruttorie sono compiute in modo delicato e rispettoso della dignità della persona; la differenza con i tribunali civili, dove a causa dell’affollamento e del numero dei procedimenti spesso si perde di vista l’aspetto umano della crisi coniugale, è abissale. Noi avvocati abbiamo, in genere, il dovere anche di svolgere attività di mediazione familiare, che può essere indirizzata al recupero della convivenza; per queste ragioni a volte mi è capitato in ambito civile di ottenere la riconciliazione, ma sono sempre e solo i coniugi i veri attori della vicenda. Mi è capitato, ad esempio, un caso in cui due coniugi, dopo aver attivato la procedura giudiziale di separazione, essersene dette di tutti i colori in Tribunale, aver coinvolto istituzioni e servizi sociali a causa dei litigi nel corso della separazione, una sera dinanzi ad una bottiglia di aglianico scelsero di fare pace. Oggi quei due giovani vivono tranquilli insieme. E di questo gli avvocati devono essere contenti”.
L’atteggiamento della Chiesa verso il matrimonio sta cambiando?
“E’ innegabile che il cambiamento dei costumi stia determinando delle aperture ulteriori quanto alla doverosa attenzione alle dinamiche delle coppie che vivono una situazione di irregolarità, ma è altrettanto vero che il Direttorio di Pastorale familiare della CEI del 1993 già prevede il necessario accompagnamento ed accoglienza nei confronti delle coppie che hanno vissuto l’esperienza della fine di un matrimonio. Tanto è vero che da anni molte diocesi sperimentano percorsi di assistenza spirituale ed anche di catechesi con queste persone, anche perché la Chiesa è madre e non giudice, dunque ha il dovere di accompagnare ed essere al fianco di chi vive momenti di difficoltà. Non vorrei, però, che dietro questa situazione si nasconda la voglia di alimentare un’ulteriore battaglia ideologica, che corre il rischio, da un lato di non tener conto del diritto sacramentario divino e dall’altro di acuire la situazione di sofferenza in cui versano le coppie irregolari. Su questo sarà fondamentale l’esito del prossimo Sinodo dei Vescovi sulla famiglia, verso cui noi fedeli ed operatori del diritto nutriamo molte aspettative; con fiducia, ci rimettiamo alle scelte che saranno operate nel prossimo futuro”.
Molti immaginano che questi procedimenti siano particolarmente costosi e praticati solo da persone molto abbienti, è vero?
“Questo è un altro mito da sfatare; in primis perché si tratta di procedimenti per il cui costo esiste un tariffario che è pubblico sui siti dei Tribunali Ecclesiastici e della CEI; in genere i costi per gli onorari dell’avvocato arrivano a massimo € 2.992,00 per il patrocinio per i primi due gradi di giudizio, cui vanno aggiunte spese fisse per trasferte, IVA, CPA, ecc; a questo si aggiunge un contributo, che al momento ammonta ad € 525,00, da destinare al Tribunale per i costi di causa. Si tratta, pertanto, di tariffe alla portata di tutti ed in linea con i giudizi civili ed, anzi, che alle volte sono anche inferiori rispetto a quanto ammonterebbe l’onorario per una causa di separazione e poi di divorzio civile contenziosi. Inoltre, vi è da dire che nei casi di difficoltà economica i fedeli possono rivolgersi anche direttamente ai Tribunali Ecclesiastici dove viene prestato il servizio di assistenza tecnica gratuita ad opera dei Patroni Stabili, senza costi per gli utenti finali”.
Divorzio breve, in tanti lo aspettano, che ne pensa? Che succederà?
“Certamente ci saranno novità dal punto di vista legislativo, se non altro per mettere in linea il nostro paese con la legislazione europea al riguardo. Rispetto alla cause di nullità matrimoniale dubito che il divorzio breve determinerà incidenze particolari, poiché è evidente che si tratta di giudizi che si svolgono dinanzi a due legislazioni differenti (Stato e Chiesa) e le motivazioni che inducono ad adire il Tribunale Ecclesiastico restano sempre di natura religiosa. Altra cosa è, invece, il piano della delibazione delle sentenze di nullità ecclesiastica, dove, a differenza di quanto si dice in giro, qualsiasi tipo di intervento dovrà necessariamente passare per la revisione degli Accordi di Villa Madama del 1984, trattandosi di legislazione pattizia e, dunque, non modificabile unilateralmente dallo Stato italiano”.