Martina Palma: “Vi racconto il mio lavoro da influencer. Cosa (non) direi a chi mi segue? Spegnete il cellulare”

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Martina Palma

Martina Palma, classe 1993, parte da Avellino alla conquista di Instagram e dei social network. In una lenta, ma inesorabile, ascesa, oggi – da Roma – racconta di sé, della sua vita, di moda, cibo, viaggi, (fogli di giornale), ispirando migliaia di giovani (e meno giovani) donne.

La più banale delle domande “da intervista”, l’incipit con cui nessun giornalista dovrebbe mai cominciare: ma chi è Martina Palma?

Sono un influencer. Perfino i miei genitori ormai mi “vendono” così alla classica domanda “ma cosa fa tua figlia?”. E ne sono orgogliosi. E io sono orgogliosa che lo siano. Prima che tutto questo percorso cominciasse, in realtà, mi sono laureata in Giurisprudenza. Nel frattempo, mi avvicinavo al mondo dei social network e curavo anche la comunicazione per alcune attività di Avellino. Era una passione. Al fatidico bivio su se volessi intraprendere una carriera giuridica o dedicarmi a qualcosa che mi piaceva più di ogni altra cosa, ho scelto la seconda strada. Un’agenzia di management di Milano ha iniziato a seguirmi e avviarmi al meglio verso questo mondo: oggi i social sono il mio lavoro, un hobby, uno spazio in cui esprimere la mia personalità.

Martina Palma e Martiipal (il nome con cui è conosciuta su Instagram, ndr) sono la stessa persona? Esiste un confine tra quello che mostri – ormai a più 100mila persone – e quello che appartiene soltanto a te?

È complicato, forse l’aspetto più difficile del mio lavoro è proprio questo. C’è una linea sottile tra la vita privata e quella pubblica, soprattutto perché non sono un’influencer “di settore”: non mi occupo soltanto di moda o di ricette, ma racconto la totalità della mia vita. Tutto è condiviso, dalla mia quotidianità ai viaggi, alle persone che ho attorno. Ad esempio, quando ho chiuso una relazione in passato, chi mi segue chiedeva informazioni, spingeva affinché raccontassi di più su quanto successo. E io mi ripromisi di rendere quel confine un po’ più “spesso”. Ammetto che mi riesce poco, ma in linea di massima un filtro c’è.

La tua “bio” ti definisce una #curvyinfluencer, in linea con i messaggi di body positivity che trasmetti. Quando hai preso contezza di quanto fosse ampio il tuo “pubblico” e, in un certo senso, della responsabilità che accompagna (o che dovrebbe accompagnare) chi trasmette un messaggio con una portata così importante?

La mia community è cresciuta gradualmente nel tempo, tranne che nella fase iniziale (era il 2012) in cui di “influencer” sui social ce n’erano pochissimi ed era più semplice emergere. La lentezza di questo sviluppo, in realtà, mi ha dato modo di abituarmi al fatto che un numero così importante di persone mi seguisse e, in particolare dall’introduzione delle “storie”, ascoltasse ciò che avevo da dire. È capitata anche a me qualche “uscita infelice”, e il fatto che moltissime persone me lo facessero notare mi ha trasmesso quel senso di responsabilità rispetto ai contenuti che pubblico quotidianamente.

“Stare bene con il proprio corpo, qualsiasi esso sia e qualsiasi spazio occupi nel mondo” è un messaggio che sta finalmente emergendo in tutta la sua potenza. Credi che stiamo diventando una società meno grassofobica?

In realtà credo di no. Il “body positivity” ha vissuto un momento di massima diffusione subito dopo il lockdown, quando siamo stati costretti a fare i conti con la realtà e anche a mostrarci in maniera più autentica, proprio perché vivevamo tutti più o meno le stesse condizioni di vita quotidiana. In quella situazione, il mondo della moda ha sicuramente cavalcato un’onda che attualmente si sta affievolendo: basta guardare le donne che hanno sfilato alla Milano Fashion Week di quest’anno. In generale, questo tipo di pensiero è più forte all’estero, ma anche qui stiamo riuscendo a decostruire la narrazione sul “fisico ideale”. Un fisico che, ovviamente, è quello femminile.

Tornando alla tua attività di influencer, effettui una selezione rispetto alle partnership e alle aziende con cui collabori?

Assolutamente sì. Seleziono sempre le partnership e le aziende con cui collaborare perché tengo molto alla credibilità che ho costruito in tutti questi anni. A volte mi viene proposto di pubblicizzare tisane dimagranti, improbabili coppette per eliminare fantomatici difetti, filler per gonfiare le labbra, ma anche elettrodomestici che nella realtà non uso o prodotti che non trovo interessanti. Ciò in cui non credo, non sponsorizzo, semplicemente.

Fare “l’influencer” non è un vero e proprio lavoro. Come rispondi?

La prima persona con cui combatto è mio nonno, che ovviamente non riesce a capire in cosa consiste il mio lavoro. Da parte dei miei genitori, invece, c’è sempre stata molta curiosità e molta comprensione, anzi, passo dopo passo abbiamo scoperto questo mondo insieme e insieme ne abbiamo imparato le dinamiche. Credo che la definizione “influencer” ormai caratterizzi un’infinità di persone, anche chi non ha alcun talento o messaggio da trasmettere o capacità in particolare. E questo probabilmente svilisce anche chi, invece, svolge quest’attività con impegno e serietà. Io impiego tutta la mia vita nel lavoro che faccio, in qualsiasi luogo vada, in qualsiasi contesto, ogni volta che prendo il cellulare e apro i social. Se per gli altri scrollare i reel su Instagram è un momento di svago, io sto lì a cercare spunti o contenuti che possono essermi utili, rispondere a commenti e messaggi, creare network community. In un certo senso, è come se non si staccasse mai. Per quanto riguarda il rapporto con le aziende, invece, ha uno sviluppo ben preciso: invio uno script, aspetto l’approvazione, creo il contenuto in modo che abbia un’idea creativa di base e coerente alla mia “voce”, edito e invio, di nuovo in attesa di approvazione. Non saprei quantificare il processo in termini di tempistiche, anche perché sono spesso variabili, però dico: io nella mia vita lavoro.

Ti sei avvicinata al mondo dei social quando andavi ancora a scuola e vivevi ad Avellino. Dì la verità, ti annoiavi?

Se guardo tra i miei “ricordi” su Facebook, già nel 2009 scrivevo post del tipo: “Oggi sono uscita col mio fidanzatino. Abbiamo mangiato un gelato a cioccolato e vaniglia. Buono questo gelato in questa gelateria, dovete andarci!”. Evidentemente questa tendenza al racconto, allo storytelling l’avevo già. E sicuramente, avevo bisogno di comunicare, di esprimere le mie emozioni, che per me sono alla base di tutto. Ad Avellino, sono profondamente legata: c’è la mia famiglia, i miei amici, le strade che conosco a menadito. Sono andata via per convivere con il mio compagno dell’epoca, non perché ne sentissi l’esigenza. Adesso mi fa uno strano effetto tornare e, ogni volta, mi rendo conto che qualcosa è cambiato, quindi mi ritrovo a reimparare la città che per me è casa, guardare come sta evolvendo.

Ci dici una cosa che non diresti mai ai tuoi followers?

Lasciate stare i social. Ma non posso dirlo ai miei altrimenti perderei il lavoro. Se potessi scegliere di vivere senza cellulare, lo farei, nonostante esistano tantissimi aspetti della tecnologia che reputo assolutamente positivi. Ma i social nascondono molti rischi, molte dinamiche malate, come il non sentirsi mai abbastanza guardando la vita degli altri che sembra, e sottolineo sembra, perfetta. Ogni tanto anch’io – che appunto ci lavoro – sento il bisogno di staccare. Quindi una cosa che (non) direi mai alla mia community è: non guardate le mie storie, dimenticate a casa il cellulare, uscite fuori con gli amici.