Si è fermato a quarantatré il bilancio delle vittime della strage del ponte Morandi di Genova. Nove i feriti, di cui due in pericolo di vita, ricoverati tra gli ospedali Galliera, Villa Scassi e San Martino.
La Procura del capoluogo ligure è già al lavoro alla ricerca delle cause del crollo e nell’individuazione di eventuali responsabilità. “Al momento non ci sono indagati – ha ammesso il pm Francesco Cozzi – le indagini di sicuro non saranno veloci e un incidente probatorio si farà solo e quando la scena dell’indagine penale sarà abbastanza delimitata”.
No insomma a una giustizia gridata, secondo il capo dei pm liguri, tuttavia sono partiti già i sequestri di documentazioni presso gli uffici della società Autostrade per l’Italia. Gli inquirenti restano concentrati sugli stralli del pilone 9 e i tecnici stanno ricostruendo i lavori eseguiti negli anni e quelli in corso nelle ore precedenti al crollo. Si attende l’esito dei primi esami scientifici per la deposizione della relazione tecnica.
In attesa di sviluppi, i momenti drammatici dello scorso 14 ottobre non possono che ricordare un’altra strage avvenuta sulle strade italiane. Quella del viadotto Acqualonga del 28 luglio 2013. Allora persero la vita quaranta pellegrini e una bambina rimase paralizzata a vita. Le vittime erano di ritorno da una gita a Pietrelcina, paese natale di Padre Pio, quando le loro vite sono rimaste spezzate dopo un volo di trenta metri giù dal cavalcavia della morte.
Appena una ventina di giorni fa, le comunità di Monteforte Irpino e Pozzuoli si erano ritrovate nella memoria di un lutto che, cinque anni dopo, invoca ancora una giustizia che sia almeno palliativa della sua cronicità. Quasi un oscuro presagio di quello che sarebbe successo di lì a poco in tutta altra parte d’Italia, ma sempre con lo sfondo la fragilità di un Paese friabile come una parete di cartongesso.
“Ai familiari delle vittime di Genova consiglio di non ripetere il mio errore, il nostro errore: quello di accettare un accordo con Autostrade per l’Italia, ricevere subito un risarcimento e uscire dal processo. Bisogna andare fino infondo: il vero risarcimento deve essere la galera per i responsabili e la revoca della concessione a chi non ha saputo garantire la sicurezza dei nostri cari”. Così Giuseppe Bruno, che ad Acqualonga ha perso i genitori, in un’intervista a Il Fatto Quotidiano e ripresa anche da Irpinianews.
Un filo rosso del sangue delle vittime collegherà per sempre le due tragedie. Quello in Irpinia era infatti considerato il più grave incidente automobilistico avvenuto in Italia nel secondo dopoguerra.
Il dibattimento penale, instauratosi qualche anno dopo la tragedia, vede accusati i vertici di Autostrade, alla sbarra per omicidio colposo plurimo e disastro. Ad accusarli i pm Adriano Del Bene e Cecilia Annecchini, coordinati dal procuratore capo di Avellino Rosario Cantelmo. Insieme ad Autostrade, tra i rinviati a giudizio c’è Gennaro Lametta, proprietario dell’agenzia “Mondo Travel” che noleggiò il bus della morte guidato dal fratello Ciro, rimasto ucciso nell’incidente, e alcuni dipendenti della Motorizzazione Civile di Napoli, che avrebbero falsificato la certificazione necessaria al transito del bus.
“Le barriere bordo-ponte presenti sul viadotto autostradale non avrebbero funzionato a causa della mancata manutenzione”: accusano in magistrati. Infatti, nella relazione tecnica si legge che ‘all’epoca dell’installazione, 1988 – 1989, la barriera denominata ‘New Jersey bordo ponte’ e posizionata da Società Autostrade era sicuramente all’avanguardia ed adeguata alle caratteristiche del traffico del periodo. Ma i tirafondi di ancoraggio della barriera subìto un’estesa corrosione e, in seguito, non è intervenuto alcun controllo o intervento manutentivo specifico, benché negli anni alcuni lavori”. Insomma, quanto emerge dalla relazione lascia ben capire che le 40 vittime avrebbero potuto salvarsi.
Ponendo la lente d’ingrandimento sempre sulle parole dei consulenti, riportate oggi da TiscaliNews “Il tratto autostradale è stato realizzato in deroga alle normative in vigore all’epoca della costruzione, avvenuta negli anni ‘60. Alcuni elementi geometrici del tracciato, infatti, non rispettano gli standard minimi richiesti della costruzione per una infrastruttura di primaria importanza quale un collegamento autostradale, ad esempio nella larghezza delle corsie e nella lunghezza del rettifilo di concatenamento fra le due curve. Rispetto alle richieste normative attuali, si evidenzia in particolare l’assenza, nel luogo del tragico sinistro, di un’adeguata corsia di emergenza, la cui assenza in base alla normativa avrebbe dovuto portare ad un declassamento dell’infrastruttura, non più classificabile come autostrada”. E concludono: “La situazione di particolare pericolosità del tratto in esame avrebbe richiesto una maggiore attenzione nella gestione e manutenzione dello stesso, e un approccio di progressivo adeguamento negli anni di tale importante infrastruttura”.
La posizione della Procura, la difesa di Autostrade
Secondo quanto riportato oggi da TiscaliNews, in riferimento alla relazione tecnica sul caso Acqualonga, “La Procura ha scoperto che Autostrade per l’Italia, tra il 2008 e il 2009, diede corso ad una serie di interventi di manutenzione proprio per la revisione dei New Jersey, ma decise di intervenire solo su una parte di quelli posti lungo i 3 mila chilometri della sua rete autostradale. E non furono inseriti nel piano di intervento i New Jersey che erano presenti sul viadotto della A16. Una decisione, pare, di carattere economico: preferirono risparmiare.
Questa almeno è la tesi della procura che adesso dopo l’ultima perizia tecnica richiesta dal giudice (e che verrà depositata a giorni) si appresta a predisporre la requisitoria finale. La replica della difesa di Autostrade è la seguente: “I periti dell’accusa hanno trascurato alcuni aspetti, come la funzione degli ancorati che non è quella di aumentare la resistenza, bensì di deformasi e di limitare lo spostamento laterale della barriera, la resistenza la deve fornire il New Jersey stesso.
Inoltre la loro efficienza strutturale non è messa in discussione dal fatto che siano arrugginiti. La possibilità che ciò potesse insorgere sulle strutture non era prevedibile, né in precedenza era mai stato osservato.
Nell’aprile 2009, anno dei lavori di somma urgenza che hanno interessato due delle campate del viadotto, il fenomeno non era ancora innescato e certamente non poteva essere rilevabile”.
Non resta che attendere la sentenza. Per settembre sarebbe prevista la super perizia del professore Felice Giuliani, ordinario di Ingegneria all’Università di Parma, incaricato dal giudice Buono. Al docente universitario il compito di stabilire l’esatta dinamica di quella tragedia la cui ferita è ancora aperta.
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