E’ stata celebrata nel pomeriggio di venerdì scorso presso la sala Manganelli della Questura di Avellino una Santa Messa in occasione del secondo anniversario della scomparsa del Prefetto Antonio Manganelli.
Alla cerimonia, celebrata dal Cappellano Don Enzo Spagnuolo, è intervenuto il Prefetto di Avellino Carlo Sessa, i famigliari del Prefetto Manganelli ed una rappresentanza dell’Associazione Nazionale della Polizia di Stato.
La nutrita presenza inoltre degli appartenenti alla Polizia di Stato e del personale dell’Amministrazione Civile dell’Interno ha confermato, ancora una volta, il forte legame che da sempre il Prefetto Manganelli aveva con la città di origine, così come evidenziato dal Questore Maurizio Ficarra nel corso di un breve intervento al termine della cerimonia.
CHI ERA – Antonio Manganelli è morto due anni fa all’età di 62 anni all’ospedale San Giovanni di Roma. Combatteva da tempo contro il tumore che l’ha colpito.
Laureato in Giurisprudenza presso l’Università degli studi di Napoli, Manganelli si era specializzato in Criminologia Clinica presso la facoltà di Medicina e Chirurgia dell’università di Modena. Dagli anni ’70 ha operato costantemente nel campo delle investigazioni, acquisendo particolare esperienza e preparazione tecnica nel settore dei sequestri di persona a scopo di estorsione prima ed in quello antimafia poi.
Nella sua lunga carriera ha lavorato al fianco dei più valorosi magistrati e di organi giudiziari investigativi europei ed extraeuropei, dei quali è diventato negli anni un punto di riferimento, legando il suo nome anche alla cattura di alcuni dei latitanti di maggior spicco delle organizzazioni mafiose.
“Avevo solo una fissazione nella mia vita, quella di fare l’investigatore. E sono felice di esserci riuscito”. Erano i giorni dell’Assemblea generale dell’Interpol, nel novembre scorso, quando Antonio Manganelli – orgoglioso del fatto che proprio l’Italia fosse stata scelta per ospitare l’incontro tra i capi di quasi 200 polizie di tutto il mondo – ribadiva ai cronisti come il suo essere “poliziotto” fosse molto più di un mestiere, quasi una missione. Onorata fino in fondo anche nei giorni della malattia che l’aveva costretto ad un periodo di cure negli States senza pero’ riuscire mai davvero a strapparlo al suo lavoro.
Manganelli è nato ad Avellino, l’8 dicembre del 1950, si laurea in Giurisprudenza a Napoli e si specializza in Criminologia Clinica a Modena. Gli anni ’70 e ’80 – dopo l’ingresso in polizia – sono quelli della formazione sul campo, spesi per acquisire esperienza e preparazione tecnica prima nel settore dei sequestri di persona a scopo di estorsione e poi in quello antimafia. Numero due del Nucleo anticrimine, collabora anche con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e il lavoro al fianco dei due magistrati lo aiuta a imporsi come punto di riferimento dei principali organi giudiziari e investigativi europei ed extraeuropei, dall’Fbi alla Bka tedesca. Nel ’91, quando il collega ed amico Gianni De Gennaro tiene a battesimo la neonata Direzione investigativa antimafia, diventa direttore dello Sco, il Servizio centrale operativo, e del Servizio centrale di protezione dei collaboratori di giustizia; dal ’97 è questore a Palermo e dal ’99 a Napoli. Prefetto nel 2000, viene nominato direttore centrale della Polizia criminale e vicedirettore generale della pubblica sicurezza, incarico nel quale dal dicembre dell’anno successivo assume le funzioni vicarie del capo della polizia.
Una carriera in continua ascesa che tocca il suo punto più alto il 25 giugno 2007, quando il Consiglio dei ministri sceglie proprio lui come successore di De Gennaro. Docente di “Tecnica di polizia giudiziaria” presso l’Istituto superiore di polizia e autore di pubblicazioni scientifiche in materia di sequestri di persona e di tecnica di polizia giudiziaria, lega il suo nome alla cattura di alcuni dei latitanti di maggior spicco delle organizzazioni mafiose, oltre cinquanta solo nei quasi sei anni da capo: “Li prenderemo tutti”, promette il giorno dell’inaugurazione del commissariato di Castelvetrano, non a caso terra natale del super ricercato Matteo Messina Denaro, erede di Provenzano alla guida di Cosa nostra. Convinto sostenitore di un modello di “sicurezza partecipata” che prevede il contributo delle forze dell’ordine, delle istituzioni centrali e locali e degli stessi cittadini, fa della “trasparenza” il fil rouge del suo mandato: “ho sempre detto che volevo che si arrivasse a dire che la polizia e’ un contenitore di vetro, dove tutti possono guardare dentro”, ripete anche quando sui giornali impazza lo scandalo dei presunti appalti truccati al Viminale. La denuncia del Corvo? “E’ un anonimo, quindi suscettibile di approfondimenti – sottolinea – Ma siccome l’ipotesi e’ quella di un reato, e’ giusto che gli approfondimenti li faccia la magistratura”.
“Orgoglioso di essere il capo di donne e uomini che quotidianamente garantiscono la sicurezza e la democrazia di questo Paese”, è pronto anche a riconoscerne gli errori: incontra i genitori di Federico Aldrovandi, il 18enne ucciso durante un controllo di polizia a Ferrara nel settembre del 2005 (quattro gli agenti condannati) e, undici anni dopo l’irruzione alla Diaz, all’indomani del verdetto della Cassazione che conferma le condanne d’appello per falso nei confronti della catena di comando all’epoca del G8 di Genova, ammette: questo è “il momento delle scuse”. “Scuse dovute”, ai cittadini “che hanno subito danni” e anche a quelli che, avendo fiducia nella polizia, “l’hanno vista in difficolta per qualche comportamento errato ed esigono sempre maggiore professionalità ed efficienza”. All’inizio di quest’anno, le sue condizioni di salute tornano lentamente a peggiorare e nel pomeriggio del 24 febbraio viene ricoverato d’urgenza ed operato all’Ospedale San Giovanni Addolorata di Roma, per la rimozione di un ematoma cerebrale, conseguenza di un’emorragia. L’intervento riesce perfettamente, assicurano i medici, e il giorno dopo le elezioni, al Viminale, il ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri gli augura di tutto cuore di “tornare presto con noi. Lo aspettiamo”. Ma è stato il tumore a vincere l’ultima battaglia.