Il diario dimenticato dell’ex manicomio di Volterra nel libro di Alessandra Cotoloni

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Marco Grasso – In manicomio si entrava, e non si usciva più. Lì, isolati dal resto del mondo, si scadeva al livello di cosa. Di oggetto fastidioso e ingombrante, dimenticato da tutti. Posti vuoti senza tempo né prospettiva, immaginati per recludere e rendere innocui, più che rieducare alla vita.

Come Fernando Nannetti, nato a Roma nel 1927 e rinchiuso in manicomio, prima nella stessa capitale, poi a Volterra, dove è morto nel 1992. Alla sua storia si è liberamente ispirata Alessandra Cotoloni nel suo ultimo romanzo, “Il diario di pietra”, edito da “Il Papavero”, presentato, insieme all’editrice Donatella De Bartolomeis, nel corso dell’evento di Summonte “Sentieri Mediterranei”. All’incontro erano presenti anche il regista Modestino di Nenna, Maria Grazia Feola, Giuseppe Joy Saveriano, Antonio Evangelista e Leonardo Piscitelli, attori del film “Sotto il segno della Vittoria” di di Nenna, proiettato a Summonte e candidato al David di Donatello.

“Lo spunto per trattare un argomento così particolare e, se vogliamo, estremo me lo ha dato mia figlia, quando è andata in gita all’ex manicomio di Volterra, una struttura molto bella, con 40 padiglioni, costruita negli anni ’30. Davanti ad uno di questi ho notato quel particolare graffito, quel grido di dolore di un uomo che, internato per tutta la vita in un manicomio e fuori dal mondo, si è aggrappato alla scrittura per non perdere la propria identità, per restare in qualche modo legato alla vita”.

Quell’immagine così forte e disperata ha immediatamente incuriosito la scrittrice senese che si è documentata a fondo su una realtà difficile e complicata, sulla quale, nel corso degli anni, è calato un silenzio pesante, quasi a voler cancellare una stagione controversa, in cui si era pensato che cancellare l’animo, prima ancora che il corpo, potesse essere la soluzione migliore per gestire una diversità ingombrante.

“Ho scoperto un mondo che ignoravo. In fondo di manicomi si parla da sempre – osserva – ma credo che pochi siano al corrente di come erano gestiti e delle condizioni in cui si trovavano le persone che finivano lì dentro. Spesso erano quasi dei lager, dove si viveva in condizioni che avevano davvero poco di umano. Si entrava con la consapevolezza di non poterne uscire più. Una volta che il cancello si chiudeva dietro le spalle di quelle persone era finita per sempre. Si diventava tutti uguali, in un tempo sospeso”.

La scrittrice ha voluto così soffermarsi sull’esistenza di Fernando Nannetti, provando a raccontarne sensazioni ed emozioni, partendo da quel graffito, da quello struggente bisogno di identità. Nannetti incise la sua storia lungo un muro, con l’ardiglione del gilet in dotazione ai degenti del manicomio di Volterra.

Impossibile non romanzare una storia di cui pochi potevano sapere, ma la scrittura della Cotoloni riesce a scavare in un’anima imprigionata per tutta una vita all’interno di una struttura manicomiale ma, evidentemente, con dentro di sé tanta poesia e capacità di osservare e sentire il mondo, anche in un posto che doveva essere molto simile all’inferno.

Il libro induce il lettore a riflettere su se stesso e sul significato della parola “normalità”. Parte del testo è scritta in terza persona, con una voce narrante che descrive le vicissitudini del protagonista, a parte in prima persona, nei passaggi in cui la scrittrice prova ad identificarsi con l’uomo per trasferire desideri e sogni, di cui c’è traccia nel graffito.

Nannetti in quel disegno-manifesto lasciato al mondo, ha voluto raccontare il suo bisogno di vita e normalità. Come quello di una famiglia, sognata e disegnata nel suo graffito dove c’è traccia di un intero albero genealogico suo personale.

Una testimonianza toccante che racchiude il grido di centinaia e centinaia di persone che venivano private completamente della propria dignità di uomini e donne. Il murale di Nannetti è considerato una delle espressioni più significative di Art Brut: in un museo a Losanna gli hanno dedicato una sezione specifica. “Una valorizzazione che in Italia non c’è ancora stata”, precisa non senza una punta di amarezza la Cotoloni.

“In quei disegni c’è il drammatico bisogno di mantenere in vita un’identità. Un bisogno che oggi si manifesta sempre più a fatica, in un’epoca frenetica in cui, schiacciati dalle tecnologie, siamo spesso anonimi e soli, ingabbiati in contesti uniformi. Collegati con tutto e con tutti, ma di fatto con pochi riferimenti nella vita reale. Chissà – osserva – che non avesse più chiaro di noi il concetto di libertà”.