I working poor irpini: “Sposarci? Avere dei figli? Ce lo sogniamo!”

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A construction worker in working clothes reveals his empty trouser pockets, pictured on January 18, 2010 in Paradeplatz square in Zurich, Switzerland. (KEYSTONE/Martin Ruetschi) Ein Bauarbeiter in Arbeitskleidung zeigt seine leeren Hosentaschen, aufgenommen am 18. Januar 2010 am Paradeplatz in Zuerich. (KEYSTONE/Martin Ruetschi)

Pasquale Manganiello – “Devi stare attento al centesimo. Comprare una maglia nuova, salvaguardare la rata della macchina, fare attenzione alle bollette. La pizza in più? Approfitto quando ad organizzare sono i miei.”

Fabio, agente assicurativo avellinese, con poche parole rende al meglio il concetto di working poor in un quadro più che drammatico: 53% di disoccupazione giovanile a fronte di una disoccupazione generale che si attesta intorno al 16. Molto peggio rispetto al resto del Paese. Cresce il tasso di irregolarità nelle aziende. Secondo il Comitato provinciale per l’emersione del sommerso, 7 su 10 non sono a norma; 5000 posto di lavoro persi in 10 anni, interi settori produttivi rasi al suolo, un numero esorbitante di iscritti al centro per l’impiego di Avellino; 105.000 irpini sono già residenti all’estero.

Inoltre c’è il working poor, lavoratore con un basso reddito, che non gli permette di tenere il passo con il costo della vita.

È la dannazione, in particolare, della generazione nata tra la metà degli anni ’80 e la metà degli anni Novanta: avere un lavoro, anche a tempo pieno, che però non consente la sopravvivenza. La possibilità, cioè, di pagare un affitto, le bollette, le spese alimentari e quelle, magari, di uno o due figli. Il diritto, come recita la nostra Costituzione, ad avere “una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del proprio lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.

Al contrario questi lavoratori si sono affacciati nel mondo lavorativo sul sistema improntato sulla crisi, quando entrare nella pubblica amministrazione, o in enti statali o nell’insegnamento, cominciava a diventare sempre più difficile, se non impossibile. Sono lavoratori che raramente hanno un contratto da dipendenti – e quando ce l’hanno, magari per piccole aziende private, hanno un netto di poche centinaia di euro – e per lo più lavorano con contratti a tempo determinato, di apprendistato, di collaborazione, con i voucher ma soprattutto con partita Iva, ormai utilizzata per impieghi che un tempo sarebbero stati certamente rapporti di lavoro dipendente.

I rapporti Istat e Censis evidenziano come questi lavoratori rinuncino a fare figli.

“Io vivo a casa mia e la mia ragazza a casa sua – confessa Silvio, aiuto cuoco in un ristorante irpino – io ho 35 anni, lei 34. Lavoriamo entrambi ma l’idea di sposarci e avere dei bambini rimane un sogno. Siamo due giovani che hanno deciso che un figlio non lo possono avere. Mio padre ha perso il lavoro a 56 anni, le nostre famiglie non possono aiutarci più di tanto. Viviamo alla giornata. Qualcosa deve pur cambiare prima o poi”.

Lavorare non è più un’assicurazione sulla vita. Con la crisi economica pure questa certezza si è polverizzata. In Italia solo tra i dipendenti se ne contano oltre 2 milioni; gli autonomi sono invece 756mila.

“Lavorare non basta per campare – ci dice Alberto – si va avanti con salari da fame. Molti miei amici sono andati all’estero dove una laurea continua a contare qualcosa. Io non posso andarmene perchè mia madre rimarrebbe sola ed ha bisogno di assistenza. L’Irpinia? Credo non cambi granchè rispetto al resto del Paese. O resti o te ne vai. Se avessi potuto me ne sare già andato. E’ triste, ma è così.”