Avellinese, avvocatessa affermata, Gelinda Vitale è nota ai frequentatori degli appuntamenti culturali per le sue intense immagini fotografiche caratterizzate, nella quasi totalità dei casi, dall’uso “narrativo” del bianco e nero.
Si definisce “estremamente timida e fondamentalmente pigra” ma nei suoi scatti c’è tutta l’attenzione ai particolari e alle storie di chi ha consuetudine con il mondo interiore e il lento soffermarsi dello sguardo in un “bianco e nero” che diventa meditazione, analisi e in qualche caso “autopsia dell’anima”.
Ama raccontare storie, Gelinda Vitale, storie difficili di donne maltrattate e bambini cui gli orchi hanno tolto l’innocenza; lei le rappresenta con rispetto, ma senza fare sconti rispetto alla drammaticità delle vicende e del messaggio che vuole trasmettere.
E allora i piccoli angeli violati sono rappresentati da bambole rotte, le donne anziane e malate si raccontano attraverso le loro ciabatte di plastica, la fede semplice delle contadine diventa marcia trionfale nella processione alla Madonna di Montevergine; attimi di vita vera che sanno trascendere la contingenza per diventare arte e, di conseguenza, patrimonio di tutti.
Com’è nata la passione per la fotografia?
“La passione per la fotografia nasce per caso, a venti anni, durante un viaggio ad Hong Kong. Mio padre mi aveva regalato una compatta analogica e cominciai, d’istinto, a fotografare le persone, i volti, gli sguardi che incrociavo per strada. Per un po’ di tempo è rimasta l’hobby “della domenica”, delle gite fuori porta o dei viaggi, poi, dal 1997, la fotografia è diventata la mia vita. Pubblicai, più per gioco che per altro, una foto fatta ad una donna a Roma a Porta Portese su una community fotografica e rimasi colpita dal commento di un perfetto sconosciuto che riusciva a cogliere in quello scatto aspetti miei personali che neppure molti amici avevano mai colto. E così la fotografia è diventata il mio linguaggio, quello più vero”.
Quali sono i suoi maestri o le sue fonti d’ispirazione?
“Nel mio percorso devo sicuramente ringraziare due persone: Francesco Truono (fotografo prevalentemente di jazz di Salerno), per avermi avvicinato ad un approccio professionale alla fotografia, e Aldo Feroce (fotografo di Roma) per i continui consigli e confronti, ma principalmente per avermi sempre spronato. Poi ci sono i Maestri, quelli che semmai non ho mai conosciuto di persona, ma di cui seguo e studio le opere. Innanzitutto Letizia Battaglia, per il coraggio e l’umanità (è stata proprio lei, un po’ di tempo fa, dopo aver visto alcune mie foto realizzate prevalentemente in teatro, ad incitarmi ad andare avanti, a vincere la mia timidezza e a ricercare la “teatralità“ nella vita piuttosto che su un palco). Poi Paolo Pellegrin, Nan Goldin, Ferdinando Scianna, Mario Giacomelli, Morten Andersen, Mary Ellen Mark (da poco scomparsa), ma l’elenco sarebbe lunghissimo”.
Quali sono le tecniche che predilige nella realizzazione dell’immagine?
“L’aspetto tecnico nella fotografia, per la verità, mi interessa poco. Mi interessa molto di più la funzionalità dell’immagine a raccontare o suggerire qualcosa. Prediligo sicuramente il bianco e nero, a volte anche con toni cupi, perché, in fondo, un po’ cupa lo sono, ma ci sono immagini che “devono” essere a colori”.
Paesaggio, reportage, ritratto, quali sono le diverse emozioni che le suscitano?
“Per quanto adori i paesaggi urbani di Basilico e di Ghirri, la fotografia paesaggistica sinceramente non rientra nelle mie corde. Anche nei miei progetti su Conza della Campania e su Apice (ancora in itinere per le mie lunghe ed estenuanti elucubrazioni mentali), preferisco cercare “l’uomo”, eventualmente attraverso un particolare o un oggetto che ne evochi la presenza. Non inseguo la “foto singola”, ma provo piuttosto a portare avanti progetti, a volte legati a temi a me cari (come la condizione della donna nella nostra società descritta attraverso i manichini nelle vetrine in “Prigioniere di sogni”, o il dramma degli abusi sessuali sui minori, evocato utilizzando bambole in “La fine dei sogni”), altre volte che traggono spunto dalla vita quotidiana (come in “Io, mia sorella e il diabete“, che racconta la vita di due sorelle anziane che vivono da sempre insieme in un connubio che sfida anche la malattia). Un ruolo sicuramente importante nella mia fotografia è la ricerca sul rapporto, quasi ancestrale ed arcaico, tra l’uomo e la fede che, specie in Irpinia, offre numerosi spunti”.
Un episodio divertente e uno commovente dal suo album dei ricordi fotografici.
“L’episodio più divertente (ma anche più imbarazzante) è stato sicuramente quando, durante un concerto, nell’avvicinarmi al palco, ho fatto cadere, in pieno silenzio, come dei birilli, tutti i paletti che delimitavano il palco dal pubblico. Quello più commovente, invece, preferisco conservarlo per me”.
Quali sono le mostre o le pubblicazioni più importanti cui ha partecipato?
“Ho realizzato diverse personali, ma la mostra, la scorsa estate, alla Casina del Principe, del progetto “Io, mia sorella e il diabete” è quella alla quale resterò più legata. Quel progetto è parte integrante della mia vita: le due sorelle di cui racconto la storia sono le mie zie a cui sono legata da un amore infinito. Ho realizzato anche diverse copertine per la Casa Editrice Il Papavero “.
Oggi la fotografia è ormai completamente digitale, i tempi romantici dell’attesa in camera oscura sono quasi archeologia, ci può essere lo stesso calore nelle immagini, la stessa emozione e possibilità di lavorare i supporti come si faceva un tempo con i chimici e la carta?
“Non ho mai pensato che il fascino o l’emozione nella realizzazione di una fotografia dipenda dal mezzo utilizzato o che sia, in qualche misura, cambiato con l’avvento del digitale, forse perché il mio approccio è rimasto immutato. E’ venuto forse meno il fascino dell’attesa, ma ci sono progetti fotografici di grande spessore emotivo ed artistico realizzati, ad esempio, con il cellulare, come, ad esempio, iDyssey di Stefano De Luigi, realizzato esclusivamente con iphone”.
Quali sono gli altri fotografi irpini di cui apprezza il lavoro, a suo avviso c’è una “scuola avellinese” di fotografia? Possiamo eventualmente ricostruirne un po’ la storia?
“Ci sono tanti fotografi molto validi in zona, Antonio Bergamino, Francesco Chiorazzi, Filippo Cristallo, Donatella Donatelli, Federico Iadarola, Franco Cretella di cui, per esempio, ammiro molto, il suo lavoro di ricerca sulla materia”.
A suo avviso c’è abbastanza spazio per la fotografia nella nostra città?
“No, secondo me c’è pochissimo spazio per la fotografia ad Avellino. I pochi eventi fotografici in città sono quasi sempre legati all’iniziativa, buona volontà ed impegno dei fotografi locali. Sono, secondo me, da encomiare gli sforzi organizzativi di Antonio Bergamino per la realizzazione della collettiva 12×12. Ma aldilà di questo, c’è poco spazio anche per diffondere una cultura fotografica. E la cosa mi rammarica molto. Napoli, ad esempio, sta vivendo un fermento fotografico notevole, che, nonostante la vicinanza, quasi non sfiora la nostra città. Penso al Centro di fotografia indipendente di Mario Spada, ai laboratori di Biasucci, alle associazioni di Luciano Ferrara. Ma persino nella vicinissima Benevento, che in poco tempo ha ospitato, tra gli altri, Berengo Gardin, Mimmo Jodice, Lina Pallotta, Fausto Podavini, i motivi e le occasioni per parlare di fotografia sono numerosi. Eppure noto un interesse ed una curiosità sempre crescente per quest’arte che, a torto, almeno qui, è ancora considerata “minore”. E questo l’ho colto anche grazie all’esperienza con la fanzine viewnotes, ideata da Francesco Chiorazzi.
Giovani e fotografia, se ne vedono tanti in giro con le reflex, c’è desiderio di imparare la tecnica oppure prevale l’approccio “istintivo” all’immagine?
“La fotografia insegna a guardare e, quindi, quale che sia l’approccio, è sempre un bene che i giovani vi si avvicinano. Mi auguro solo che non sia esclusivamente per cavalcare la moda del momento”.