Dall’ospedale di Solofra ai reparti Covid del nord, la testimonianza di un infermiere irpino nella task-force: “Sarò sempre al servizio della Nazione”

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Antonio Sarro è un infermiere irpino che lavora presso l’ospedale di Solofra. Quando lo scorso marzo il Governo ha indetto un bando per 500 infermieri disponibili a lavorare nei reparti Covid degli ospedali del nord più colpiti dall’emergenza Antonio, insieme a molti altri professionisti irpini, non ha esitato un attimo e ha subito partecipato alla selezione. Dopo poco tempo è stato chiamato ed è partito alla volta del Polo Ospedaliero di Lavagna in Liguria, dove ha lavorato con i pazienti di Coronavirus nelle ultime settimane.

Perché hai deciso di partecipare al bando lanciato da Governo e Protezione Civile?

Ho deciso di partecipare perché era una chiamata che proveniva direttamente dal Governo, quindi per amor di patria e poi perché non potevo lasciare soli colleghi che si ammalavano e facevano turni massacranti tali da non poter tornare almeno un giorno dai propri cari. Inoltre il sud non poteva rimanere inerte rispetto alle problematiche infinite che stavano vivendo al nord: la nazione è una e una sola senza divisioni. Sarò sempre al servizio del Paese.

Cosa hai trovato appena arrivato nel reparto Covid?

Ho trovato colleghi stremati ma che continuavano a dare il meglio di sé, mi hanno apprezzato fortemente per questo gesto e mi hanno accolto come un fratello. Ho trovato pazienti che siamo riusciti a portare alla guarigione e altri che purtroppo non ce l’hanno fatta ma che abbiamo accompagnato e sostenuto dignitosamente fino alla fine.

Come è stato il tuo rapporto con i pazienti e quanto è stata dura affrontare il momento più tragico dell’emergenza?

Il mio rapporto con i pazienti è stato ambivalente perché da un lato ho dato tutto al meglio delle mie capacità professionali sulla parte della cura e dell’assistenza e dall’altra non è mancato l’aspetto scherzoso e gioviale, tipico di noi meridionali, per provare a rallegrare quei momenti complicati. Il sacrificio maggiore è stato quello di lasciare mia figlia: ero sereno perché mia moglie è una donna fantastica oltre che una madre meravigliosa. Spero che un giorno mia figlia possa capire che, nonostante i sacrifici, vale sempre la pena servire il bene comune e tentare di salvare delle vite.

Quando hai capito che le cose stavano migliorando?

L’ho visto nel momento in cui aumentavano di gran lunga le persone guarite e diminuivano fortemente i pazienti ricoverati strettamente per Covid-19. Ma abbiamo fatto tanto altro perché ci siamo confrontati con tante patologie che andavano trattate e gestite al di là del virus.

Cosa ti porti dietro da questa esperienza?

Mi porto dietro una esperienza professionale che mi ha fortemente migliorato come infermiere, come professionista ma soprattutto come uomo, nel senso stretto legato all’emozione. Tanti pazienti avevano soltanto noi vicino, di fatto  sostituivamo i loro cari che chiaramente non potevano entrare in ospedale.

Come sarà il ritorno in Irpinia?

Il ritorno in Irpinia sarà stupendo, riabbraccerò mia moglie, mia figlia e tutti i miei cari. Per me era giusto fare questo sacrificio: non me la sono sentita di rimanere a casa di fronte a quelle immagini di sofferenza, rispetto a una parte della nazione allo stremo delle forze.

Tu che hai vissuto sul campo il dramma vero dell’emergenza, cosa consigli ai cittadini in questa fase di ripartenza?

Rispettate le buone norme che ormai tutti conosciamo alla perfezione perché da questa brutta pandemia si esce solo se tutti noi dimostriamo un senso civico estremo affinché il sacrificio di tutti i medici, infermieri e operatori sanitari italiani non sia reso vano da comportamenti scorretti e inappropriati.