Clan Sangermano, l’Antimafia chiede un quarto di secolo di carcere per tre imputati

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NOLA- Quasi un quarto di secolo (ventitre’ anni e cinque mesi ndr) di carcere per tre imputati nell’inchiesta sul clan Sangermano che hanno scelto di essere giudicati con il rito ordinario, nello specifico: otto anni per Michele Sangermano, cugino del presunto capoclan Agostino Sangermano, otto anni e tre mesi per Nicola Sangermano, fratello del presunto capoclan e sei anni e otto mesi per Clemente Muto, commercialista accusato di concorso esterno. Al termine di una requisitoria andata avanti per due ore e mezza, queste sono state le richieste al Tribunale Collegiale del pm antimafia Sergio Raimondi, il magistrato che si è occupato di tutta l’istruttoria relativa all’inchiesta sul clan di Livardi, operativo anche per una parte della provincia di Avellino, disarticolato da un’indagine dei Carabinieri del Nucleo Investigativo di Castello di Cisterna e della Dia nel novembre del 2022. Le due istruttorie decise in sede di abbreviato con le condanne per quasi tutti gli imputati (fatta eccezione per Ezio Mercogliano ndr) che ora sono dinanzi ai magistrati della III Sezione Penale della Corte di Appello di Napoli, dove si stanno discutendo le impugnazioni. Una lunga ricostruzione dei fatti contestati ai tre imputati, quella proposta in aula dal magistrato antimafia, che ha anche chiesto l’assoluzione per due dei capi di imputazione contestati a Michele e Nicola Sangermano.

“IL CLAN SANGERMANO ESISTE”

Il presupposto per giungere alle richieste di condanna, come ha evidenziato aprendo la sua discussione il pm Raimondi, e’ costituito dell’accertamento dell’esistenza del clan Sangermano. Il magistrato ha fatto dunque riferimento alle due sentenze di primo grado emesse dal Gup del Tribunale di Napoli nei confronti di una parte degli imputati (tra cui lo stesso capoclan Agostino Sangermano) e quella del Tribunale di Nola nei confronti di Luigi Vitale. Un primo riscontro alle ipotesi e alla tesi sostenuta dall’ Antimafia. In particolare per Raimondi un riscontro importante e’ quello costituito dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. In primis Antonio Scibelli, affiliato al clan Cava, che riconosce i due fratelli Sangermano e il ruolo nel settore usurario e dell’ imposizione di forniture per la loro impresa. Poi ci sono le dichiarazioni di Marcello e Ciro Di Domenico. Raimondi ricorda in particolare le parole usate da un altro esponente della camorra nel nolano, Nino Alfonso, che aveva fatto un riferimento alla circostanza (riscontrata dai Carabinieri di Castello di Cisterna che avevano scovato un documento degli anni 80) e dal racconto dei collaboratori di un patto sancito durante un incontro risalente al 2011 in cui Sangermano avrebbe proposto un fronte contro i vecchi clan del nolano. Progetto a cui i Di Domenico, finiti in carcere, non avevano potuto aderire. Per Raimondi, dunque i fratelli Sangermano “erano soggetti riconosciuti da tempo nell’ ambito criminale”.

LA TELEFONATA DEL BOSS AL CUGINO: PARLAVA IL CAPOCLAN

Nella sua ricostruzione il pm antimafia ha evidenziato tutti gli elementi sintomatici di maggiore rilievo che potessero indicare la partecipazione degli imputati al sodalizio. Uno di questi, sul fronte della detenzione di armi da parte del gruppo e sul ruolo di partecipe di Michele Sangermano, cugino del presunto capoclan e del coimputato Nicola Sangermano, e’ costituita dal richiamo a Michele Sangermano per aver patteggiato una condanna per la detenzione di armi da parte del cugino Agostino. Che lo aveva apostrofato in malo modo. Per Raimondi in quel momento non c’era un contatto tra cugino e vicino di casa, bensì tra capoclan e un suo sottoposto. Indicativa del fatto che l’organizzazione non accettasse una “resa nei confronti dello Stato” e la circostanza che avesse fatto quella scelta perché non riuscisse a fare neppure un poco di carcere. Diversa rispetto alle contestazioni iniziali e’ la posizione di Nicola Sangermano (ancora detenuto e collegato in videoconferenza dal carcere di Viterbo) per cui e’ riconosciuta la partecipazione al clan, del resto Raimondi ha sottolineato come lo stesso Agostino Sangermano partecipasse ai proventi della Edil Sangermano, ma per lui nessun ruolo di promotore e organizzatore del sodalizio (da qui anche la richiesta di condanna ad otto anni e tre mesi). Elementi sintomatici ed un ribaltamento delle conclusioni a cui era giunta la Cassazione anche per la posizione del commercialista Clemente Muto. Il pm antimafia ha infatti evidenziato come fosse sintomatico del contestato concorso esterno al gruppo di Sangermano, un fatto specifico, ovvero che non si facesse mai riferimento specifico nelle conversazioni che riguardavano Sangermano allo stesso. Dal prossimo undici marzo la parola passerà ai difensori. Aerre