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Carmine Tommasone,ecco come si diventa un campione di boxe.

carmine tommasone

carmine tommasone

Irpino di Contrada, trentenne, già campione nazionale dei piuma, ora titolare della corona Intercontinentale Wba. Carmine Tommasone è l’orgoglio dell’Irpinia sportiva.

Perché lui è un prodotto autoctono (della scuola pugilistica che fa capo al maestro Michele Picariello, uno che sta a bordo ring, tra sacrifici e miracoli), mentre l’altro sport, quello che (per così dire) conta (calcio e basket) si nutre di apporti esterni, tra i protagonisti (sul campo e sul parquet). Tommasone e la boxe, un amore lungo vent’anni, nato quasi per caso, poi consolidatosi col tempo.

Carmine, come nasce la tua passione per il pugilato?

Entrai in palestra quasi per caso. I miei genitori aprirono un bar a Contrada, io ero un ragazzino fin troppo vivace, loro non volevano che stessi tutti i pomeriggi a bazzicare un bar. Così decisero di mandarmi in palestra. L’unica, a Contrada, era quella dove si praticava la boxe: nacque tutto così.

E poi?

E’ stato amore, quasi a prima vista. Non ho potuto farne più a meno, degli allenamenti quotidiani, dell’atmosfera della palestra. Dopo circa 20 anni, sono ancora qui.

Cosa ci hai trovato, in quella palestra?

Una passione che è cresciuta col tempo e persone eccezionali. Innanzitutto, il maestro Picariello, che mi segue da 20 anni e mi conosce alla perfezione: sono cresciuto con lui, si può dire che ci capiamo al volo. E Agostino Cardamone, che da subito è stato un esempio per me.

E ci hai trovato anche tanta fatica?

Certo, ma quando le cose si fanno con passione anche la fatica si sopporta. Certo, la boxe è sport che impone sacrifici, ma non ne ho mai sentito il peso.

Anche perché i risultati aiutano?

Naturalmente. Ho avuto un’ottima carriera, da dilettante: oltre 100 match, poche sconfitte, tanti viaggi e trasferte con la nazionale, avendo come compagni gente del calibro di Russo e Valentino.

E poi il passaggio al professionismo: come mai, ora che molti tendono a restare dilettanti?

Tutto nacque da una delusione: mancai di un soffio la qualificazione alle Olimpiadi di Pechino, un traguardo che si raggiunge una volta nella vita. Pensai anche di lasciare lo sport, poi mi convinsero ad abbandonare questi propositi e a fare il grande salto.

Agostino Cardamone è stato il primo grande esempio: ma quali sono i pugili che ti hanno ispirato di più?

Tra quelli non più in attività, sicuramente Nasseem Hamed, Fernando Vargas e Pernell Whitaker. Tra i campioni attuali, penso a Floyd Mayweather, un vero fuoriclasse, e Vasyl Lomachenko, che ha avuto una carriera dilettantistica incredibile ed è diventato campione del mondo tra i professionisti dopo solo due match.

Tutti pugili dalle eccellenti qualità tecniche?

E’ un po’ la mia boxe: tecnica e gioco di gambe, più che attitudine da fighter.

Cosa significa essere pugile professionista oggi in Italia?

E’ dura: significa fare sacrifici, mal ripagati dal punto di vista economico.

Come sono i guadagni?

Per il match in cui conquistai il titolo italiano la mia borsa era di 2500 euro. Ma mica li ho visti.

In che senso?

Che la borsa era quella, ma se penso a quel che ho speso per preparare quella sfida mi vengono i brividi.

Al netto, ci hai guadagnato o rimesso?

Non ho fatto i conti: posso averci guadagnato pochi spiccioli o averci rimesso qualcosa. La preparazione è durata 3 mesi, ho svolto 2 allenamenti al giorno, per 3 volte alla settimana sono andato a Torre Annunziata e Caserta per fare i guanti con l’olimpionico Parrinello, senza dimenticare i soldi spesi per gli integratori e per la dieta.  E non considero le giornate sottratte al mio lavoro: per fortuna ho una socia, il che mi consente di assentarmi.

Che lavoro fai?

Gestisco una gioielleria, insieme con un’amica.

E le borse per match non titolati?

Arrivavo al massimo a 700 euro. Ma sono andato anche molto al di sotto.

Quanto?

Appena 300 euro per il mio quarto match da pro, contro Andrea Scarpa, un rivale di valore.

I suoi colleghi cosa dicono?

Si lamentano tutti: del resto, le cifre parlano chiaro.

Ha raffronti col passato?

Il mio procuratore, Biagio Zurlo, mi diceva che per un match per il titolo italiano ebbe una borsa di 23 milioni di vecchie lire. E parliamo di circa 25 anni fa. Negli anni ’90 si andava dai 17 ai 19 milioni, che rapportati ad ora sono un’enormità.

Come se ne esce?

Ci vorrebbe in aiuto da parte delle istituzioni e dell’imprenditoria. Qui ad Avellino è dura organizzare, senza aiuti economici.

E senza quelli tocca combattere in trasferta, con tutti i rischi che ne derivano?

Appunto. Una cosa, ad esempio, è provare una sfida europea potendola organizzare ad Avellino, altra cosa è andare in Inghilterra, nella tana del campione (Warrington, ndr).

Se dovesse fare un appello a chi lo rivolgerebbe?

A chi, istituzioni o imprenditori, considera lo sport un veicolo importante, sotto tutti i punti di vista. In tanti, insieme, si può fare molto.

 

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