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Carceri irpine tra inferno e paradiso. “Sovraffollamento e disagi, così non si rieduca”

E’ stato definito “Il viaggio della speranza”. In alcuni casi, forse, si può parlare anche di “all’inferno e ritorno”. E’ un quadro in chiaroscuro quello che emerge dall’iniziativa promossa e organizzata dall’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane, dall’associazione “Nessuno tocchi Caino”, dal Garante provinciale delle persone private della libertà personale della Campania e dal Movimento Forense-Dipartimento Carceri.

Il viaggio nelle carceri della Campania – che proseguirà fino a sabato 13 maggio – così come già fatto e programmato in altre regioni d’Italia, ha visto l’ingresso di delegazioni di avvocatura e associazionismo negli istituti di pena di Lauro, Arienzo, Santa Maria Capua Vetere, Benevento, Airola, Sant’Angelo dei Lombardi, Avellino e Salerno.

“In Campania la situazione rispecchia quella nazionale – spiega Rita Bernardini, presidente di “Nessuno tocchi Caino” – . Forse, però, è aggravata per il numero di detenuti che ci sono. L’istituzione penale in Italia non è fatta secondo i principi della nostra Costituzione. Non c’è, e non ci può essere per come sono strutturate le carceri, un vero e proprio recupero. Abbiamo notato luci ed ombre. Nel carcere di Avellino abbiamo visto parti del penitenziario che sono assolutamente avanzate, dove si fa un’opera di recupero verso il lavoro, lo studio, e parti molto degradate, dove ci sono casi problematici”.

Bernardini parla di “casi di disagio pschiatrico molto forti e di tossicodipendenza. Ma anche di povertà. Abbiamo incontrato una persona molto anziana, una persona di 75 anni – già per l’età non dovrebbe stare in carcere – che potrebbe uscire ma non lo può fare perché non ha una casa dove poter scontare i domiciliari. Questo purtroppo è un problema serio”.

La presidente di “Nessuno tocchi Caino” non ha dubbi: “Bisognerebbe puntare molto di più sulle misure alternative al carcere e rinchiudere quelle persone che sono davvero socialmente pericolose. E fare una vera opera di risocializzazione, ovvero non è possibile che qualcuno sia chiuso in una cella senza fare niente aspettando che il tempo passi, come ci è capitato di vedere oggi. Così non si fa rieducazione”.

“Per fare rieducazione – sottolinea Bernardini – occorre una mentalità diversa. E, si badi bene, il nostro sistema penitenziario costa tantissimo, tre miliardi e 200 milioni all’anno, pensate che tutta la giustizia ha un finanziamento di poco più di sette miliardi. I soldi che vengono investiti nell’amministrazione penitenziaria, dovrebbero essere investiti in quella parte che viene chiamata ufficio penale per l’esecuzione esterna per il recupero e la prevenzione del reato”.

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