“Leave” or “Remain”: il giorno del grande quesito è arrivato, da questa mattina i sudditi di Sua Maestà d’Oltre Manica sono chiamati alle urne per il referendum che ha lacerato in due il Regno Unito. La spaccatura, per chi vive nell’isola più grande d’Europa, si percepisce ad ogni angolo della strada: chi, davanti, le proprie abitazioni espone con orgoglio cartelli con inciso “Noi restiamo” e chi, come la Union Jack, espone adesivi che dicono “Fuori”. C’è addirittura chi ammette: “Io sono indeciso, ma il solo fatto che Cameron sia per restare mi mette una gran voglia di votare per uscire”.
Sul piatto c’è la permanenza o meno del Regno Unito nell’Unione Europea.
In realtà non è che poi i Britannici ci siano davvero così dentro: non hanno la moneta unica europea, guidano a sinistra e, come testimoniato dal derby all’ottavo di finale dell’Europeo francese tra Galles ed Irlanda del Nord, hanno ben quattro nazionali di calcio.
E dall’altra parte della Manica si chiedono da cos’altro dovrebbero uscire.
Il timore principale è un effetto domino sugli altri paesi dell’Ue, non dimentichiamo che se da un lato si parla tanto di vincoli trans-nazionali, dall’altro ci sono territori – come i Paesi Baschi – che non chiedono altro che l’indipendenza, addirittura dalla propria nazione, figuriamoci dall’Europa. Inoltre i diffusi sentimenti di antimmigrazione e quella sensazione della crisi economica continentale possono solo aumentare l’euroscetticismo.
I primi dati danno una lieve percentuale favorevole al “Remain”, ma il rischio Brexit (Britain-Exit) resta alto. In ogni caso se vincesse l’opzione “Leave”, il Regno Unito dovrebbe cominciare un negoziato con i 27 leader dell’Unione europea per definire le condizioni della sua uscita. Un processo che potrebbe durare almeno due anni e nel frattempo lo United Kingdom dovrebbe rispettare comunque i trattati e le leggi europee, senza prendere parte ad alcun processo decisionale.
D’altro canto Londra, così come l’intera nazione, è piena di “stranieri”, anche italiani, che considerano la Gran Bretagna come la propria casa e votare l’uscita dall’Europa significa quasi dire “vattene” ai tanti ospiti presenti sul territorio, perfettamente integrati in quella realtà globale.
Significa votare contro Maria Napolitano, ad esempio, nata ad Avellino, che da gennaio vive presso una famiglia di Manchester con lo scopo di studiare la lingua inglese.
“Le conseguenze sono differenti come le opinioni – ammette la giovane – In Inghilterra gli over-65 parlano di Leave, non considerando, a mio parere, l’orizzonte futuro e quindi di sviluppo economico e lavorativo, mentre il range di lavoratori (che comprende un’età molto più giovane rispetto alla media italiana, visto che anche i 18enni studiano e lavorando contemporaneamente) sostengono l’altra ipotesi, quella più accreditata.
Le conseguenze di questa uscita, per noi italiani all’estero, non sono ancora chiare e sembra che non saranno drastiche, è tuttavia mia opinione che l’eventuale uscita porterà dei danni, economici principalmente, sia interni che esterni. Anche nei rapporti tra i lavoratori all’estero (interni, in termini contrattuali e tutto ciò che è relativo) e con il mercato europeo (esterno, tasse e Pil).”
Sarebbe un peccato, insomma, rinunciare a quel ruolo globale che ha acquisito nel corso negli anni il Regno d’Oltre Manica, un po’ come New York che è stata centro e traino dell’ascesa americana. I politici britannici dovrebbero trovare il modo di diffondere quel miracolo economico londinese anche nel resto del paese, ed evitare che il malcontento si trasformi in antieuropeismo e voglia di uscire dall’Ue, passo che segnerebbe una frenata d’arresto per Londra e per tutto il Regno Unito.
di Renato Spiniello.