Soldi al sistema bancario ? Pochi effetti sull’economia reale !

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Ho già spiegato in un precedente articolo il perverso meccanismo che vede da qualche anno le banche centrali nazionali tentare di reagire allo stato di perdurante crisi che attraversa molti continenti.

Come? Riducendo i tassi d’interesse e stampando montagne di moneta che vengono imprestata a costo zero ai singoli stati e in genere al sistema bancario e alle istituzioni finanziarie.

Lo scopo immediato è quello di evitare il fallimento di entità sistemiche che possano causare disastri interplanetari.

Quello mediato – ma assolutamente teorico – è fornire maggior liquidità al sistema creditizio abilitato, in tal modo, ad espandere il credito alla propria clientela.

La parola crisi, nel nostro caso, sottende una pluralità di significati: aumento incontrollabile dei debiti nazionali, calo della produzione, compressione dei redditi disponibili e quindi dei consumi, aumento della disoccupazione, riduzione dei Pil nazionali.

Pochi giorni fa Mario Draghi ha affidato a twitter il suo pensiero: il contesto economico «è più difficile di sei mesi fa» e ci sono «rinnovati rischi» sull’economia dell’eurozona dal rallentamento dei Paesi emergenti.

Dalla Cina al Brasile, il dilatarsi delle aree che presentano criticità impone una stretta sorveglianza alla Bce e, contestualmente, anche rapidità di azione. Anche perché la ripresa all’interno di Eurolandia è sorretta dalla gambe non proprio solidissime della domanda interna, mentre quella esterna «è più debole di quanto ci si aspettasse».

Insomma, dopo sei anni di Qe portato avanti da quasi tutte le banche del mondo, i risultati appaiono insignificanti per gli stessi medici che hanno inventato la cura. Io ed altri lo prevedevamo già 3 anni orsono.

Molti si staranno chiedendo, ma se stampiamo nuova moneta perchè non risolviamo tali difficoltà? Innanzitutto, non tutti i problemi che affliggono questo decennio possono essere risolti solo col denaro.

Pensate al modello organizzativo delle nostre imprese.

Cambiarlo (che sarebbe cosa buona e giusta perchè datato) significherebbe, da un lato, modificare i prodotti, i sistemi produttivi e distributivi, le esigenze e le abitudini di spesa del consumatore finale, dall’altro innovare tutto il sistema paese con le sue politiche legislative e fiscali.

Questo è un lavoro che spetta ai singoli Paesi, e infatti non a caso Draghi invita spesso gli stati membri dell’UE a “fare le riforme”.

Ma soprattutto mi sembra sia legittimo, a questo punto, cominciare a dubitare ufficialmente dell’espediente adoperato dalle banche centrali.

La carta moneta messa in circolo si ferma infatti nei forzieri delle tesorerie statali e delle banche che, alla scadenza concordata, dovranno però restituirla.

Poco giunge al sistema produttivo, nulla alle fasce delle popolazioni in difficoltà.

Prova ne sia che le imprese in Italia chiudono perchè non riescono smaltire le scorte e a rinnovare gli affidamenti; e gli italiani hanno ridotto i consumi di ogni tipo sia per effetto della diminuzione del reddito disponibile sia per il rifiuto ad ottenere credito dalle banche.

Le difficoltà crescenti che intravede Draghi sono di due tipi: il rialzo dei tassi d’interesse che prima o poi interverrà (è impensabile infatti comprimerli artificialmente ad libitum) e il peggioramento dei dati economici nazionali.

Non è un segreto per nessuno che l’America, più avanti di tutti nel processo di risanamento economico, stia valutando quando alzare il costo del denaro.

Alcuni stimano che ciò possa avvenire quest’anno, altri il prossimo.

Il danno per i paesi come il nostro, con un debito pubblico monstre, sarebbe notevole: i titoli del debito pubblico dovrebbero essere remunerati più caramente con aggravio per le già deboli casse statali.

Per quanto riguarda i dati economici, dopo un iniziale entusiasmo, cominciano a mostrare delle resistenze a migliorarsi un po’ ovunque.

La produzione industriale italiana ha subito un rallentamento più marcato del previsto in agosto, deludendo le attese e smentendo in qualche modo l’ottimismo espresso negli ultimi tempi dal governo.

Secondo i dati dell’Istat, la produzione industriale è diminuita in agosto dello 0,5% rispetto a luglio, risultando leggermente peggiore del -0,3% atteso dagli economisti.

Nella media del trimestre giugno-agosto ha segnato una variazione nulla nei confronti del trimestre precedente, mentre nella media dei primi otto mesi dell’anno la produzione è aumentata di un misero 0,8% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

Segnali di rallentamento si colgono anche nelle dinamiche macronomiche della Germania (su cui nei prossimi mesi peserà anche il disastro industriale della Volkswagen) e della Francia.

La stagione in cui le società americane dichiarano i profitti dell’ultimo trimestre chiuso a settembre, è già cominciata. Alcoa, società leader mondiale nella produzione dell’alluminio, è tradizionalmente la prima a darne comunicazione.

Ebbene essa ha ridotto in maniera significativa le stime sugli affari fatti (soprattutto in Cina, grande acquirente di materie prime).

I profitti conseguiti sono stati pari a 44 milioni di dollari, in forte calo rispetto ai 149 milioni dello stesso periodo del 2014.

L’utile per azione è pari a 0,07 dollari. Gli analisti si attendevano un risultato di 0,13 dollari per azione.

Se tanto mi dà tanto, non c’è da aspettarsi nulla di buono neanche dalle altre aziende.

Insomma, come volevasi dimostrare, regalare soldi al sistema bancario sembra avere pochi effetti sull’andamento dell’economia reale, quella cioè non fatta di azioni e bond (che nel frattempo si sono esponenzialmente apprezzati) ma di automobili, computer e prodotti alimentari.

(Dottor Massimo Moschella trader e analista indipendente)

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