I danni economici del sisma a L’Aquila secondo prime, provvisorie stime, si aggirano su un mezzo punto di Pil (7,5 miliardi di euro). Si può comunque stimare che i costi degli interventi di soccorso e ricostruzione, se quantificati in mezzo punto di Pil, possano generare un aumento dell’indice di uno 0,75.
E proprio il modello di ricostruzione dall’ultima grande catastrofe sismica in ordine di tempo prima dell’Abruzzo, quella in Umbria e Marche, dovrà essere da esempio. Circa un anno fa il Governatore dell’Umbria poteva vantare davanti al capo dello Stato che il 90 per cento della popolazione, a dieci anni dal terremoto, “… è tornata a vivere nella propria abitazione ricostruita”. Una ricostruzione nata nel segno della sicurezza antisismica, una spesa totale che, stando agli ultimi dati, si è assestata intorno ai 4,3 miliardi, esattamente in linea con le previsioni di fabbisogno iniziale.
Ma non è stato sempre così: il caso più emblematico di anti-eccellenza ci tocca da vicino. La ricostruzione in Irpinia fu, purtroppo, uno dei peggiori esempi di speculazione sulla tragedia. Finanziarie, leggi, leggine ed emendamenti ad hoc sono servite spesso a ricolmare la dote iniziale dei fondi. Perché gli stanziamenti venivano spesso dirottati verso aree che non ne avevano diritto, moltiplicando il numero dei comuni colpiti ed aumentando le spese ed i costi anno dopo anno, mentre la ricostruzione languiva. Il caso dell’Irpinia è emblematico e a ricordarlo è stata, poco meno di un anno fa, la Corte dei Conti. In 28 anni si sono susseguite 27 leggi, una l’anno, per un totale di stanziamenti pubblici che ha superato i 32 miliardi di euro, gli ultimi 157 milioni fino al 2022 con la Finanziaria 2007.